Quando nel novembre 2004 uscì il primo numero (cartaceo) di Liguria Business Journal, molti dissero: “Ma che cosa avrete mai da raccontare ogni mese?”. Si è dimostrato che cose da raccontare ce ne sono molte, moltissime.
La nostra linea editoriale era puntare sulla Liguria che produce, che ha idee, che lavora.
Erano altri tempi: molto prima della tremenda crisi che non è ancora finita.
Lo scorso anno abbiamo provato ad adeguarci alla realtà, trasformando il magazine in testata online, per darle maggiore rapidità, raggiungere più persone e abbattere i costi. I risultati di lettura ci hanno dato ragione.
In tutti questi anni abbiamo provato a raccontare le imprese e l’economia attraverso le notizie così come le conoscevamo, ma anche attraverso l’occhialino roseo dell’ottimismo. Era la nostra scelta. Certamente ci sarebbero state molte altre cose da raccontare, ma si tratta di una realtà estranea all’input che ci eravamo dati. Il livello piuttosto basso dal punto di vista culturale e progettuale della classe dirigente (politica, imprenditoriale, anche sindacale) di questa regione. Il mare di piccole imprese che non sanno dialogare tra di loro. I difetti storici di questa terra (l’amicizia di facciata e la furbizia di sostanza). Una buona parte di imprenditoria ereditaria, familistica, che, tranne rare e ammirevoli eccezioni documentabili, quando va bene gestisce e conserva ciò che ha ricevuto. I gruppi di potere che mischiano presenze da vari ambienti per governare (basterebbe citare il caso di Carige e di tutti coloro che ruotavano e si inchinavano attorno al presidente Berneschi: tutte persone che, subito come sempre accade, hanno preso rapidamente le distanze da un uomo caduto in disgrazia). La voglia di apparire e di salire sui treni dei presunti o possibili vincitori. Ma, dal Medioevo, questa è la storia della Liguria.
Tutto questo, appunto, non faceva parte della linea editoriale che ci eravamo dati. Volevamo invece essere di sprone positivo allo sviluppo della regione, raccontandone il meglio e non il peggio come fanno – o sono costretti a fare – i media generalisti. Volevamo anche trattare un tema e approfondirlo, usando il minor numero possibile di aggettivi, per consentire ai lettori di farsi la propria idea
Sono passati molti anni. Il mondo è cambiato. È cambiata anche l’editoria che sta attraversando una crisi mai vista. È cambiata anche l’economia, benché molti difetti storici siano rimasti.
Ovunque oggi si sente parlare di “mercato”. I sacrifici, oltre che dall’Europa, sono richiesti dal mercato. Le necessità di cambiamento si annusano nel mercato. In ogni campo ci sono molti interpreti saggi o improvvisati delle richieste del mercato: nessuno può o sa contraddirli. Anche nei media, mercato significa elementi belli (prodotti che abbiano una rispondenza in un numero sufficiente di lettori e di inserzionisti e non in “sovvenzioni” più o meno occulte) e meno belli (contenuti dettati dalla comunicazione aziendale o con essa simpatizzanti). È un dibattito che attraversa, in tutto il mondo, l’editoria e il giornalismo. Chi è avvertito, leggendo un giornale, guardando la tv, scorrendo il web si accorge subito di questa linea di demarcazione. Un giochino che mi piace a volte far fare agli studenti è quello di individuare le fonti di informazione in un articolo di giornale o in un servizio televisivo: le sorprese a volte sono interessanti.
La domanda principale, a mio parere, resta: quale è il punto di riferimento di chi fa il mediatore tra i fatti e il pubblico? Ognuno risponde a modo suo: la necessità di sopravvivenza o il desiderio di fare ricavi portano a offrire risposte diversificate. Del resto oggi l’editoria è molto spesso governata dai finanzieri o da improvvisati.
È un discorso molto generale e non legato a questa testata, ma che forse può spiegare un po’ di stanchezza in chi da moltissimi anni fa il mestiere di giornalista e preferisce mettersi, oggi, un po’ fuori dalla mischia facendo solo quello che crede di essere in grado di fare discretamente e con piacere.
Poiché tutto è cambiato, è possibile che cambi anche questo magazine. O forse no. Ma, rispondendo alle esigenze che personalmente avverto dal mercato (o non volendo rischiare di dover rispondere a nuovi format “imposti” dal mercato), cambio anch’io. Anche perché penso che i progetti siano belli quando sono condivisi e chiari e le relazioni tra le persone siano altrettanto trasparenti.
Ho sempre sostenuto che un giornalista non debba mai scrivere in prima persona, se non quando assume la direzione di un media, oppure la lascia. Per questo scrivo in prima persona: perché lascio la direzione di questa testata che, nel bene e nel male, facendo molti errori, ho fondato e provato a guidare in tutti questi anni.
Ringrazio i nuovi e vecchi amici, sinceri e non sinceri. Ringrazio soprattutto i tanti giovani che si sono formati collaborando a questo magazine che ha provato a essere un po’ anche laboratorio di giornalismo.
Auguro alla testata i successi che senza dubbio saprà meritare.