Impertinente, troviamo nei dizionari, è persona che fa e soprattutto dice cose con cui viene meno al riguardo dovuto ad altri. È sinonimo di insolente, sfacciato. Anticamente significava “fuor di proposito”. Andando più indietro nel tempo, arriviamo al latino impertĭnens -entis, composto di in- e del participio presente di pertĭneo. Impertĭnens signica “che non ha relazione con”, pertĭneo “estendersi fino a , essere comune a, appartenere, riguardare, concernere”.
Lo stesso autore degli “Impertinenti”, che potremmo definire raccolta di ricordi e riflessioni, pubblicata da LBJ, tiene a spiegarcelo in poche righe di introduzione. E già nel sottotitolo, “Ricordi di un riottoso alle appartenenze”, appare con chiarezza l’inizio del filo etimologico che abbiamo dipanato: stiamo per leggere pagine prive di riguardi nei confronti di una realtà nella quale l’io narrante vive e alla quale ritiene di non appartenere.
Il libro è visibile qui gratuitamente: Gli impertinenti di Michele Monosillabo
Qual è questa realtà? È Genova. Qui squarciamo un velo che del resto è sottilissimo. Genova e le altre località della Liguria nel libro non vengono mai menzionate con il loro nome. Genova è il “Gran Borgo”, gli altri nomi reali, di luoghi e persone – a partire da quello dell’autore – i lettori li indovineranno da sé. Il gioco è scoperto, si capisce che il suo scopo non è difensivo ma quello di segnare le distanze da ciò che viene rappresentato. Lo stesso effetto straniante cercato con il pastiche linguistico: sottocodici, registri, lingue e stili diversi, spagnolo, francese, inglese, tedesco, citazioni colte ed espressioni pop permettono all’autore di mantenere un ironico disincanto nei confronti della materia trattata. E invitano chi legge a fare altrettanto nei confronti dello stesso autore, che vuole essere preso sul serio ma non sul serioso, e sembra ci parli con un bicchiere di Negroni (o anche di nostralino) in mano. (Pare a noi che questo non sia un libro per astemi ma è solo una sensazione senza fondamento razionale).
In sostanza, siamo di fronte a un genovese, arrivato a un’età in cui si tende a guardarsi indietro, appartenente a una famiglia che nei secoli per i rami paterno e materno ha prodotto protagonisti della storia di Genova e della Liguria, da ultimo anche politici e letterati. E che con la sua città ha un rapporto critico, espresso non di rado in modi beffardi e pungenti. E che, come moltissimi altri genovesi, Genova la vorrebbe diversa ma non la cambierebbe con nessun’altra città. Come non potrebbe neppure immaginare di cambiare club di calcio.
A Genova l’autore è legato ma non le appartiene, non del tutto. Non è, però, un déraciné. Sente di avere le sue radici in una altra terra, l’Argentina. Figlio di genovesi emigrati per alcuni anni in Argentina, il nostro è nato a Buneos Aires e si è poi trasferito a Genova con la famiglia quando i genitori hanno deciso di tornare. Ma quello che per i suoi è stato un ritorno per lui è stata una perdita secca: del mondo dell’infanzia, dei primi amici e di un modo non tanto di vivere ma di sentire la vita che sotto la Lanterna non ha più ritrovato. L’Argentina, così, è diventata la base da cui poter guardare Genova dall’esterno. Uno dei due poli tra i quali oscillare nell’impertinenza: escluso da uno per un fatto della vita, dall’altro per scelta.
Questo, però, non è il diario di un emigrante che non si è integrato nel paese di arrivo. Anche se il racconto non ha un andamento cronologico, e segue il fluttuare dei ricordi così come si presentano alla coscienza, non è difficile, per il lettore, capire che chi scrive ha lasciato Buenos Aires prestissimo. A Genova e nell’Italia del Nord sono milioni le persone della stessa fascia d’età dell’autore, che hanno lasciato il loro paese natio, nel Sud Italia, da bambini. Spesso ne conservano un ricordo sbiadito, colorato di tenerezza, a volte ancora qualche parente e una casa ereditata dove al massimo passare una settimana o due di vacanza all’anno. Ma quasi nessuno, o ben pochi, anche tra chi emigrando non ha avuto fortuna, ha fatto del paese d’origine la base ideale da cui guardare con occhio critico alla nuova patria.
Oltre tutto il nostro autore si guarda bene dal proporre l’Argentina o il Sud America come modelli alternativi. Non soltanto Juan Domingo Peròn e i suoi sciagurati successori, militari e civili, non devono godere delle sue simpatie, per quel che si può capire dalle poche occasioni in cui sono evocati, ma nel libro non circola la minima suggestione terzomondista.
E allora? L’Argentina è solo una finzione per poter guardare Genova da lontano? Niente affatto. L’Argentina, e Genova, sono le sponde tra le quali oscilla il pendolo del ricordo. Ed è il pendolo, o meglio, il suo oscillare, il vero protagonista e il motore della narrazione.
Il titolo del libro, non dimentichiamolo, non è L’Impertinente ma Gli Impertinenti, i non appartenenti, l’unico gruppo a cui l’autore sente di appartenere. Composto in primo luogo dai familiari, o da una loro parte, poi dagli avi e dai parenti meno stretti e dai conoscenti, fino ad allargare lo sguardo a quel ponte che i liguri hanno costruito tra loro terra e l’Argentina. E qui il libro ci porta a conoscere una realtà che per molti di noi è vicina (chi non ha almeno un parente che è emigrato nelle Americhe?) eppure lontana, sconosciuta. L’autore ha trovato in casa documenti, taccuini, diari, foto, cartoline, che gli permettono di gettare un fascio di luce su quel mondo. Ne vengono fuori personaggi bizzarri e affascinanti, colti e raffinati oppure selvaggi, e un paese che esplode di energie, di creatività. Un paese che è un «disordinato paradiso terrestre: bestiame bovino disponibile a milioni di capi, giaguari, orsi, cani enormi mai prima visti, carne ovina usata come combustibile nei forni di mattoni, tanto che si diceva delle vecchie chiese di Baires essere state edificate con mattoni cotti con carne di montone. Il bestiame bovino ed equino si moltiplica in stato di totale selvatichezza a sud fino a Rio Negro, a est fino a Mendoza, a nord fino a Tucuma». Un paese dove, come nel resto del mondo «professori, avvocati, medici, sono gli araldi del mondo migliore» e aspirano a mettersi alla guida dello Stato ma devono convivere con il gaucho «che vive fra suini, galline, teste mozzate, cuori, dorsi e colli di animali», «insensibile a qualsivoglia richiamo che non sia quello della sella, della corsa al puma, del trionfo sanguinario sulla bestia». I gaucho «devono ora vedersela con la macchina messa in moto dalla grande città che li vuole civilizzare. Baires parte alla conquista delle vaste pianure. In poco tempo 5000 chilometri di fili telegrafici collegano la novella nazione» però l’Argentina continua vivere dell’esportazione di cereali e di carne, cuoio, pellame, quindi anche del lavoro dei gaucho…
In questa terra nel 1899 nascerà Jorge Luis Borges ,che nel 1926 scriverà: «Ormai Buenos Aires, più che una città, è un Paese e occorre trovare la poesia e la musica e la pittura e la religione e la metafisica adatte alla sua grandezza» perché «la nostra realtà vitale è grandiosa e la nostra realtà pensata miserabile» (Vedi “La misura della mia speranza”, Adelphi, 2007). Una grandiosa realtà vitale che per chi ha scritto questo libro è il contraltare, implicito e costante, della nuova realtà trovata in Europa e la causa della sua impertinenza.
In questa terra, tra gli antenati dell’autore, c’è chi decide di abbandonare l’impertinenza e di trovare una nuova appartenenza, e chi no. C’è Guido, che vive in entrambi i continenti con il distacco del dandy, e torna in Italia, scontrandosi con i fascisti ai quali spiega «apertamente e con garbo il suo cosmopolitismo, che non è un valore né tanto meno un principio da urlare. È solo il frutto diretto della curiosità, vero motore primario, in grado di agglutinare buon materiale per conversazioni e per note di diario, dai piatti gustati alle fondamentali informazioni su sarti, calzature, ombrelli, cocktail, codici di approccio sociale. Sommamente utili per piacevoli soggiorni». E chi, come Stefano, «sente il richiamo dei luoghi natii, torna in Italia con tre figliuoli, è vedovo ma si appresta a sposarsi una seconda volta. Avrà ancora tanti figli, maschi, e due femmine, fra cui appunto abuelita Elena e sua sorella maggiore Emma. Ma tutti nati colà e non quaggiù. A nessuno può sfuggire che il capostipite, dopo la prima partenza, tornò a Rosario e Buenos Aires, e diverse volte oltretutto. Quando dimorava fra gli eucalipti australi gli mancava il Medio Borgo, serio e operoso, ma quando c’era vi avvertiva la mancanza delle pianure senza fine e soprattutto del vigoroso, impetuoso sorgere di una nuova comunità inedita nella storia, innervata mese per mese da nuovi arrivi da ogni dove e dal flusso di ansiose speranze, vivificata dalla l’esuberante ricerca di floridezza. È la terra che fa l’identità e Stefano ne possiede due: la natia regione angusta, assediata da mare e terra era l’opposto del Rio de la Plata. Stefano: né colono né emigrante, bipolare geografico, impertinente».