Cuffie in testa, guanti, camici, zoccoli da sala operatoria. Gli operai e i tecnici nel nuovo stabilimento di Herbarium, sorto mesi fa vicino a Pitomača, nel Nord Est della Croazia, lavorano così. (E così si devono equipaggiare i visitatori del sito).

Il fatto è che qui si producono bustine di camomilla e di altre erbe per tisane e infusi che devono arrivare nella tazza del consumatore inappuntabili dal punto di vista igienico come da quello organolettico. Per abbattere la carica batterica il materiale in entrata viene sottoposto a trattamenti termici e con Co2 e poi lavorato in base a un protocollo igienico e di comportamento. Per quanto riguarda il pericolo di contaminazioni di natura industriale, camomilla, menta, melissa e le numerose altre erbe impiegate nello stabilimento crescono in campi che non soltanto vengono trattati esclusivamente con materiale organico ma sono lontani da siti dove potrebbero essere usati insetticidi e altri prodotti chimici. L’ampia pianura del Nord Est croato, paradiso dei cacciatori di cervi di tutta Europa, offre lo spazio necessario a questa sorta di super-biologico, imposto dallo standard che si è dato l’azienda produttrice.
Herbarium è partecipato al 49% dal gruppo croato Spider, specializzato nella coltivazione organica e nella lavorazione di erbe aromatiche e medicinali, e al 51% da Everton, che ha direzione a Genova, stabilimenti a Tagliolo Monferrato, Pitomača e in India, un centro logistico vicino ad Asti e un ufficio commerciale negli Usa. La piantagione di camomilla che si estende non lontano dallo stabilimento, come altre che producono per Herbarium, è proprietà di una società di Spider, Biofarma. Infine, Everton detiene il 5% di Spider.

Questa rete di connessioni mette in condizione la società genovese di controllare ogni fase della produzione, dalla semina alla partenza delle scatolette nei container: Everton, nata più di settanta anni fa e giunta alla terza generazione, ha scelto di puntare sulla qualità del prodotto e di garantirsela con il pieno controllo della filiera. «Il controllo della filiera – conferma Federico Dodero, presidente di Herbarium (vicepresidente è Denis Nemčević, presidente di Spider) e amministratore delegato di Everton (presidente il fratello Filippo Dodero) costituisce una delle nostre linee strategiche fondamentali. Tutta l’azienda è articolata in modo da garantircelo. In India, per la produzione del tè abbiamo un rapporto privilegiato con una piantagione e lavoriamo la merce in un nostro stabilimento. E siamo d’accordo con il fornitore per acquisire la piantagione nel 2020. Certo, costerebbe molto meno comperare il tè e le erbe sui mercati, impacchettarli e venderli, come fanno molti nostri competitori, ma noi abbiamo scelto una strada diversa. Inoltre non curiamo solo la qualità di erbe e tè, le nostre bustine non contegno colla o punti metallici, le scatole hanno solo materiale biodegradabile, niente cellophane o nylon, tutto il packaging è riciclabile. Abbiamo tracciato tutta la flilera, dalla piantagione alla bustina confezionata».
Lo stabilimento di Pitomača, che ha richiesto un investimento sui 3,9 milioni di euro, produce 1,2 milioni di bustine al giorno, con una cinquantina di addetti, destinati ad aumentare. Una realtà importante nella zona, tanto che alla sua inaugurazione erano presenti le autorità locali, compreso il ministro dello sviluppo economico. Le sue merci vanno principalmente nell’Europa dell’Est e in Italia, Germania, Francia, Svezia.
A Tagliolo Monferrato si producono zucchero di canna e caffè, tè, cioccolato, budini e cacao solubili. Le linee produttive sono state ammodernate in ottica Industria 4.0 ed è stato introdotto il sistema gestionale Sap-Mes integrato con la produzione per un investimento complessivo di 1,2 milioni di euro.
Un centro logistico da 3000 posti pallet, nell’astigiano, riceve merce da Tagliolo Moferrato, dall’India via Genova e dalla Croazia e la spedisce in tutto il mondo. I solubili contano per il 25% del fatturato, il tè per il 50% e le tisane per il 25%. Tè e tisane si prevede crescano maggiormente in futuro, anche per effetto della nuova unità produttiva, comunque la crescita è in atto da tempo, negli ultimi dieci anni è stata ininterrotta, con una media a doppia cifra. Il fatturato consolidato ha raggiunto 23 milioni nel 2017, 26 milioni nel 2018 e 28 milioni nel 2019. Il 70% delle vendite viene realizzato in Europa, il resto principalmente in Messico, Usa, Medio Oriente. Il 30% del prodotto porta il marchio Everton, il 70% ha un’etichetta privata, una private label, cioè il marchio del supermercato in cui viene messa in vendita.
«Insieme alla qualità e al controllo della filiera – precisa Dodero – la private label rappresenta una delle nostre linee stategiche. Ha ancora margini di crescita notevoli, soprattutto in Italia, perché in questo campo, e soprattutto, per quanto ci riguarda, nel tè, il nostro paese è rimasto arretrato rispetto alla media d’Europa».
«La private label è il futuro e il fatto che Everton punti su questo canale distributivo è uno dei motivi per cui ho scelto di farne parte in questa nuova fase della mia carriera» – commenta Mario Gasbarrino, chief strategy officer dell’azienda genovese.

Gasbarrino nella grande distribuzione è un mito. Ha lavorato per Gruppo GS, Sigros, Rinascente e, dal 2006 fino a settembre 2019, in Unes come presidente e amministratore delegato. Qui ha rivoluzionato il mercato della gdo italiana con la trasformazione di U2 Supermercato nel “Supermercato Controcorrente” raddoppiando il fatturato da 500 milioni di euro a 1.007 milioni. A Gasbarrino si deve anche la prima alleanza con Amazon Prime Now nella gdo europea. Nel 2015 ha lanciato il primo temporary store di una private label. Unes è stata la prima insegna della grande distribuzione a ridurre gli sprechi alimentari, energetici ed ecologici, introducendo il banco del pane self-service, gli sportelli al banco frigo e rimuovendo gli imballaggi in plastica delle confezioni d’acqua a marchio privato. Sotto la direzione di Gasbarrino il gruppo ha aperto un temporary store dedicato esclusivamente al proprio marchio premium “Il Viaggiator Goloso”, mettendo a frutto il patrimonio emozionale e valoriale del brand.
«Dopo 35 anni nella gdo – spiega il manager – sentivo la necessità di confrontarmi con un mondo diverso, ormai nel retail non c’era nulla di cui potessi innamorami. Del resto ero arrivato a un’età in cui si può anche scegliere. Allora ho deciso di passare dall’altra parte, dalla parte dell’industria. Con un metodo e un obiettivo: aiutare con le mie indicazioni le aziende italiane piccole e medie a crescere. Aziende che dovevano avere queste catteristiche: essere gestite da giovani, possedere le potenzialità per diventare grandi, avere consapevolezza del fatto che è la marca privata il terreno di sbocco del futuro per le pmi e puntare sull’internazionalizzazione, saper interpretare la fame di italianità che c’è nel mondo. Chi resta dentro ai confini nazionali è destinato a scomparire, salvo alcuni casi. Ho avuto diverse offerte e ho scelto Everton che rispondeva a tutti questi requisiti: ormai l’azienda è guidata con competenza dalla terza generazione della famiglia Dodero, dai giovani Federico e Filippo, vende il 70% del prodotto con etichette private nella fascia alta della gamma ed è lanciata sul cammino dell’internazionalizzazione, le sue basi Croazia e India ne fanno una multinazionale tascabile, facilitano la penetrazione anche nei mercati più lontani». (continua dopo il video)
Ma perché è così importante vendere con le private label?
«L’importanza della private label – spiega Gasbarrino – è cresciuta con l’evoluzione del mercato, a sua volta determinata dal profondo cambiamento in atto della figura del consumatore. L’etichetta privata era nata per lasciare, in una parte della merce, un po’ più margine al distributore, liberandolo dalla concorrenza ossessiva sui prezzi. Se, per esempio, una scatola di pelati con il marchio del produttore viene venduta a prezzi diversi dai diversi distributori, la concorrenza sui centesimi è spietata. Se la stessa scatola è in vendita con il marchio del distributore la concorrenza si attenua e la politica di prezzo può essere meno aggressiva. Diciamo che la privata label era nata per rispondere a un’esigenza tattica».
Ora, però, puntualizza Gasbarrino, ha assunto un ruolo strategico: «È successo che in questi anni il consumatore è cambiato. Sempre più informato, connesso attraverso i nuovi media, attento, il consumatore non bada più soltanto al prezzo ma al rapporto qualità-prezzo e vuole vedere rispecchiati anche nei prodotti che acquista i propri valori, come il rispetto dell’ambiente, degli animali, la genuinità e quindi l’esclusione di allergeni, conservanti, eccetera. E cerca una conferma della propria identità, di qui il successo dei prodotti tipici, tradizionali. I primi a vendere con etichetta privata sono stati i discount, che applicano alla merce marchi di fantasia soltanto per differenziarla, per evitare la banalità e dare un po’ di colori agli scaffali ma in sostanza vendono con il proprio marchio. Il loro messaggio è molto chiaro e coerente: compera il mio prodotto e avrai il miglior rapporto qualità-prezzo. Messaggio apprezzato dal consumatore ma una fascia sempre più ampia della clientela oggi vuole e può permettersi qualcosa di più. E allora l’etichetta privata sta diventando un elemento di differenziazione e di fidelizzazione del cliente. La scatola di pelati con il marchio del produttore posso trovarla ovunque, quella con etichetta privata la trovo solo da un determinato distributore. E se questo distributore riesce ad abbinare alla sua etichetta il richiamo a determinati valori ecco che scatta la fidelizzazione». (continua dopo la fotogallery)
Un processo che riguarda non solo la gdo ma in generale tutti i punti vendita. «I negozi fisici in futuro, sotto la pressione di questo processo e incalzati dall’e-commerce, saranno sempre più piccoli e meno numerosi, e monomarca. L’offerta non potrà essere banale, indifferenziata, i negozi dovranno distinguersi. Nell’abbigliamento la diffusione dei monomarca è molto evidente».
Se il consumatore diventa sempre più consapevole sarà sempre più esigente e la fidelizzazione più ardua da ottenere. «Certo, ai valori dichiarati o evocati devono corrispondere dati reali, per questo sono importanti la tracciabilità, la trasparenza. La qualità. È la fascia alta della private label, la premium, che soprattutto ha un futuro. E allora torniamo alla necessità del controllo della filiera. Se vendo con il mio nome a maggior ragione voglio garanzie sulla qualità del prodotto».