«Sii te stesso» è la formula magica della contemporaneità, il comandamento che domina incontrastato nella nostra epoca. Rappresentare un prodotto che permetta al consumatore di “esprimere se stesso” è l’architrave delle campagne di marketing, l’etica dell’autenticità è dilagata nei consumi, nella politica, nella sessualità, nel rapporto con la famiglia, il lavoro e la religione, nel turismo “esperienziale”, ecc…), nel cibo e nella medicina (pensiamo alla sciocca polarizzazione naturale = buono, sintetico o industriale = cattivo, all’assurda celebrazione del biologico e alla demonizzazione degli ogm, vedi qui), nella moda e nella cosmesi.
In “La fiera dell’autenticità” (ed. Marsilio) il filosofo e sociologo francese Gilles Lipovetsky ripercorre l’evoluzione di questo concetto dall’età arcaica ai giorni nostri.
Se assunti filosofici, sistemi di pensiero, concezioni della vita possono in varia misura orientare comportamenti sociali, economici e politici di singoli individui, il concetto di autenticità si pone immediatamente come ponte tra ideologia e vita quotidiana. Ognuno di noi vuole affermare la propria identità ed essere se stesso (anche quando farebbe meglio a essere qualcun altro).
La conclusione di Lipovetsky è che “essere se stessi è un ideale etico connaturato alla democrazia moderna. Non per questo, però, rappresenta il valore dei valori… Il mondo moderno esalta l’autenticità ma celebra anche l’iniziativa, l’innovazione, la ricerca scientifica, l’efficienza tecnologica, l’inventiva: anche questi sono valori e qualità indispensabili alla costruzione di un futuro nel quale riconoscersi (…). Il valore dell’autenticità va opportunamente ridimensionato, perché sul piano che ci interessa non risolve nulla: ‘ha le mani pulite ma non ha le mani’ come diceva Péguy del kantismo, cioè non è in grado di fornire soluzioni efficaci ai pericoli che incombono sulle nostre società. Diffidiamo della religione dell’autentico, (…) la ‘saggezza’ di cui abbiamo bisogno consiste nel non aspettarsi dall’autenticità più di quello che ha da offrire”. L’autore avverte anche che bisogna “lasciare perdere una volta per tutte il ritornello che equipara l’autentico al bene e l’inautentico al male. Il mondo tecnico-scientifico non è un grande Satana: senza la mediazione dell’artificio tecnico di origine umana non avremmo mai un futuro migliore”.
Conclusione, a nostro avviso, pienamente condivisibile, ma il pregio maggiore dell’opera di Lipovetsky sta nella lunga disamina dell’evoluzione del concetto di autenticità. Qui il cammino vale più della meta. L’autore ci spiega che quello che a noi appare naturale, voler essere se stessi, è un ideale che fa eccezione nella storia delle civiltà. Per migliaia di anni nelle società tradizionali era l’obbedienza alle leggi comunitarie non l’esigenza di esprimere se stessi nella propria singolarità la norma suprema. Con l’antica Grecia prende forma un sentimento nuovo, la coscienza di una dimensione interiore, con la poesia lirica, che si affianca all’epica, e la filosofia. L’indagine filosofica vuole portare l’uomo a scoprire il proprio Sé autentico, a emanciparlo dai falsi valori e dalle passioni: ma l’Io è emancipato non quando aderisce a una propria verità psicologica individuale ma quando entra in sintonia con la ragione universale, con un ordine naturale impersonale. Si tratta di un individualismo che è agli antipodi della moderna cultura individualista.
“Il paradigna dell’autenticità individuale definita come aderenza a se stessi nasce nell’Europa dei Lumi e Rousseau è il suo profeta” scrive Lipovetsky, mettendo a fuoco la svolta decisiva del concetto di autenticità.
Poi l’autore ripercorre tutte le trasformazioni che il concetto di autenticità ha attraversato, prima con Herder, Humbolt, Goethe, poi con Kirkegaard, Stuart Millll, Nietzsche, Ibsen, Wilde, Heidegger, Sartre, Emerson Thoreau, Melville, Hawthorne, Whitman, e poi con gli artisti bohemien, e hippie, freak, studenti ribelli, con le “controculture” e le comuni, collettivi urbani, tribù rurali (l’autenticità nella natura!), raduni musicali, festival, alla ricerca di esperienze comunitarie autentiche. L’esigenza di essere se stessi ha introdotto la sessualità nel discorso politico e ha fatto di Wilhelm Reich un maestro di vita e di pensiero.
L’autenticità ha vinto. E una delle osservazioni più interessanti di Lipovetsky è che “nell’avventura della modernità l’ideale dell’autenticità personale appare come il frutto paradossale dell’inautenticità consumista (…) grazie alla normalizzazione indotta dalle leggi di mercato un ordinamento economico più volte additato come fonte di alienazione e meccanismo di spoliazione della soggettività ha favorito più di qualunque altro vettore l’accettazione unanime del principio della determinazione di sé”. “L’autenticità è ovunque: sui muri delle città, sugli abiti, sulle magliette, sui cappellini. Calvin Klein dichiara ‘Be good. Be bad. Be yourself’. Hugo Boss ‘Don’t imitate, innovate’, Lacoste ‘Deviens ce que tu est’ (…) L’ideale dell’espressione di sé che ha nutrito la rivolta della controcultura è stato recuperato dal sistema delle merci”.
In conclusione, nella “Fiera dell’autenticità” troviamo, descritta in modo chiaro e scorrevole, la genesi di idee che sono uscite dai libri e determinano la nostra vita quotidiana, forse in modo ancora più radicale e totalizzante di quanto non siano riuscite a fare le ideologie totalitarie del secolo scorso.