La crescita dello scalo di Genova da metà 800 fino a quasi il primo dopoguerra, tanto per i traffici quanto per la cantieristica navale, è stata in parte finanziata dalle rimesse di denaro che gli emigranti mandavano a casa. Una vicenda dura, che trova anche fonte su “Storia dell’Immigrazione Italiana” (ed. Donzelli). Nel 1851 l’Argentina, soprattutto la regione del Plata, nell’immaginario collettivo dei poveri rappresentava l’Eldorado. Si favoleggiava di lavoro e ricchezza per tutti. Raggiungerla per nave era l’unico modo. L’idea era diffusissima e in molti cercavano un posto verso la fortuna. Le leggi di “mercato” di allora (non molto diverse da quelle di oggi, viste dalle sponde opposte all’Italia) erano dettate dalla richiesta. Un passaggio verso l’Argentina costava 300 lire. Tantissimo, poiché quell’importo – nel mondo delle costruzioni navali – equivaleva al costo di fabbricazione di una tonnellata del veliero che ospitava gli emigranti.
Visto che non c’erano ancora leggi che regolamentassero l’emigrazione, a maggior ragione non ve ne erano per canalizzare le rimesse che gli emigrati nelle Americhe spedivano a casa. Come fare, si domandavano i lavoratori da laggiù, a mandare le palanche a casa? Chissà che bel sospiro di sollievo avranno tirato quei poveri diavoli quando – tramite agenzie di loro proprietà – gli armatori hanno detto loro: “ci pensiamo noi”. E così facevano. I denari passavano dalle mani callose dei lavoratori a quelli delle “agenzie” (una ventina quelle genovesi) che si impegnavano a “custodire e investire” questi capitali. Custodire forse, investire, invece per certo. E in cosa, se non in nuove navi per trasportare altri emigranti?