«C’è ancora una cosa, che i Genovesi non si raffinano in nessun modo: sono pietre massicce che non si lasciano tagliare. Quelli che sono stati inviati nelle corti straniere, ne son tornati Genovesi come prima». Questo scriveva Montesquieu nel novembre del 1728 nel suo “Viaggio in Italia” per descrivere gli abitanti della Superba.
A oggi non è che le cose siano cambiate molto. Per certo Genova da grande città che era si è derubricata a città grande. Un percorso iniziato da tempo, che nel 2017, se non cambieranno alcune cose fondamentali, potrebbe trovare una definitiva consacrazione. Una decrescita effettiva e che di felice ha poco o punto.
L’anno che verrà – fatti salvi eventuali miracoli – sancirà che Genova non è più, per controllo locale delle grandi società che la popolano, una delle potenze italiane dell’industria e della produzione. La politica economica e l’economia politica avrebbero in Genova un mero palcoscenico dove si reciterebbero copioni scritti altrove e dove i registi verrebbero da lontano. Anche la politica locale, quella della città in senso stretto, potrebbe diventare un conglomerato di persone che per contare qualcosa nelle scelte economiche, finanziarie e sindacali, dovrebbero partire per andare altrove a tentare di concordare le scelte per l’ex terzo vertice del triangolo industriale che fu.
E se qualcosa sta cambiando lo diranno le elezioni comunali. Diranno quanto la voglia di cambiamento abbia basi nella convinzione e nella consapevolezza di quel che si desidera in futuro per la città metropolitana.
Componenti partitiche e movimentismi cercano di smarcarsi da quelli che vengono definiti “poteri forti”. Nel termine alternativamente si intendono, nell’immaginario comune, le banche, l’euro, l’Europa, la grande impresa, le multinazionali globalizzate, i media nella più ampia accezione, le chiese, la visione generale corrente di origine ideologica. Un guazzabuglio dove ci sta tutto ciò che è o è stata la cultura occidentale. Per il vero è un po’ troppo. In realtà i cercatori di voti sembra si stiamo tutti organizzando per poter sellare e condurre quello splendido cavallo giovane e forte che galoppa libero e spensierato nelle praterie del web e che si nutre dell’ignoranza (dovuta alla mancanza di informazione appropriata) generalizzata sulle specificità delle strutture sociali e istituzionali della società civile.
Che sia proprio questo tipo di mancanza di conoscenza imposta il nuovo, vero imbattibile “potere forte” da rincorrere, blandire e incanalare per poter ottenere consenso?
Disfare anziché ricostruire fiducia? La fiducia che va e viene in periodi sempre più brevi, tante volte dettata dagli stati d’animo del momento. Resta il fatto che enti statistici hanno rilevato che nel solo periodo tra il 2011 e il 2012 il 65% dei cittadini italiani ha perso fiducia nelle istituzioni, il 27% è rimasto fedele al concetto e solo l’8% lo ha visto aumentare. Le percentuali variano oggi così rapidamente che è difficile riuscire a muoversi tra gli stati d’animo delle persone, soprattutto quando vanno a votare.
A Genova la situazione non è così diversa che nel resto d’Italia. Ma la ex Superba, di stati d’animo vive da sempre, ammalata di “maniman” e abituata a prendere le decisioni nel silenzio delle singole persone, esternamente dissimulato dal mugugno continuo per rendersi invisibile quando le decisioni sono state prese. In questi giorni è passata in Parlamento la “legge finanziaria”. In quei circa 27 miliardi c’è di tutto. Per certo ce n’è un pezzettino per tutti. Liguria compresa. I conti istituzionali dicono che porterà una crescita del Pil nazionale fino all’’ 1%. Ma non tutti ci credono. Anzi molti già ne criticano i contenuti, senza averli ancora in mano. Ci sta che lo faccia l’opposizione parlamentare al Governo appena caduto. Fa il proprio mestiere. Ma i cittadini, singolarmente, ne estrapolano le parti che interessano la propria persona, denigrandone il contenuto, ritenuto insufficiente almeno quanto ancora non compreso. Fiducia bassa, spesso anche per poter solo dire: “io l’avevo detto”. Ma se questa manovra funzionasse, stiamo negli esempi, l’elezione del prossimo sindaco di Genova potrebbe avere, in termini politici, temi diversi dall’economia. Quell’economia che, tanto, per quanto si dica, da Palazzo Tursi sono decenni che non fa più sosta.
Anche perché a Genova sono decenni che le scelte economiche che contano si subiscono e basta. Ragionare sui numeri a tavolino, osservando fuori dalla finestra una città che cambia. Senza guida apparente. I dati e le percentuali economici e sociali, i quali non sono altro che i risultati dei comportamenti e delle azioni di un territorio, fanno ben intendere quanto tutta la politica, e forse questo è un caso di studio a livello mondiale, più che proporre soluzioni – che non potrebbero che essere durissime – preferisce lasciar correre, accusando i poteri forti. Quanto dipende dal non avere fiducia nel presente e nessuna certezza in un futuro che nemmeno si immagina più? E questa condizione si legge nei dati controversi sull’occupazione. Dice infatti Bankitalia che sulla base della rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat tra il 2011 e il 2014 (con un certo dispiegamento anche nel bienni 2015/16) il reddito disponibile in termini reali delle famiglie liguri si è ridotto del 6,6%, a fronte di un calo del 5,9% a livello nazionale.
Così come avvenuto nel complesso del Paese, in termini nominali il calo ha riguardato i redditi da lavoro autonomo e da proprietà, a fronte di un aumento delle prestazioni sociali e degli altri trasferimenti netti. E se «i redditi da lavoro dipendente sono cresciuti leggermente», certo altrettanto non si può dire del gettito pensionistico, che in Liguria ha una rilevanza percentualmente maggiore di quasi tutte le altre regioni. Ovviamente nel periodo 2011-2014 l’andamento negativo del reddito disponibile si è associato a un calo dei consumi effettuati in regione che, in base ai dati dei conti territoriali dell’Istat, sono scesi del 6,3% (-6,1% in Italia; valori al netto della spesa dei turisti stranieri).