Con “La formula perfetta-Una storia di Hollywood” (Adelphi, traduzione di Gilberto Tofano), David Thomson, celebre critico cinematografico britannico trasferito da anni negli Usa, ricostruisce la storia del cinema dagli inizi agli anni Duemila, mostrandoci il passaggio dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, con particolare attenzione agli Trenta e Quaranta, alle recenti innovazioni tecniche. E lo fa raccontandoci storie, episodi curiosi o piccanti – compaiono donne spregiudicate, pedofili, truffatori – dei personaggi che hanno fatto il cinema, registi come Griffith, Welles o Hitchcock, attori come Greta Garbo, Marlene Dietrich, Humphrey Bogart o Jack Nicholson, e altri che ora molti di noi non ricordano.
E produttori come Jack Warner, Louis Mayer o Samuel Goldwyn. Perché l’opera di Thompson è anche una riflessione sul rapporto tra arte e business, tra qualità e denaro. Una dialettica che è il motore della macchina hollywoodiana, produttrice di valore economico. E di sogni.
E allora, dopo il bel libro del critico inglese viene voglia di (ri)vedere “C’era una volta Hollywood…” di Quentin Tarantino, dove il vero protagonista del film è la costante interazione tra fiction-sogno e “realtà”, dove Hollywood è set cinematografico e luogo dove gli attori vivono la loro vita “reale”, sono riconosciuti, ammirati e aggrediti nei loro corpi in carne e ossa in quanto protagonisti delle fiction trasmesse al cinema o in tv, Leonardo di Caprio per eliminare un’avversaria si serve di un’arma impiegata in uno dei suoi film e conservata in casa, e tutti sono fatti “della stessa sostanza dei sogni”.