Sono passati 50 anni dall’alluvione di Genova del 7-8 ottobre del 1970. Le fortissime piogge (948 mm d’acqua in 24 ore) portarono all’esondazione dei torrenti Bisagno, Fereggiano e Leira, oltre alla piena dello Sturla, del Polcevera, del Chiaravagna e del Cantarena. 43 le vittime, di cui 35 morti e 8 dispersi. Oltre 2 mila gli sfollati.
In occasione della ricorrenza, l’Ordine regionale dei Geologi della Liguria, in collaborazione con Sigea – sezione Liguria (Società italiana di geologia ambientale) e con il corso di studi in Scienze geologiche del Distav (Dipartimento di scienze della terra, dell’ambiente e della vita) dell’Università di Genova, ha organizzato una visita lungo il tratto terminale del torrente Bisagno, per ripercorrere i luoghi simbolo dell’alluvione.
«Si tratta di eventi − commenta Carlo Civelli, presidente dell’Ordine regionale dei geologi della Liguria − che si verificano con frequenza sempre maggiore e colpiscono pesantemente un territorio, come quello ligure, che è caratterizzato da fragilità geologiche e geomorfologiche ma anche da pesanti eredità di urbanizzazioni poco rispettose dell’ambiente, se non in alcuni casi incoscienti».
Come sottolineano i geologi, gli interventi eseguiti oggi con massima urgenza rappresentano, in molti casi, solo un “rattoppo” a un problema più vasto, nonché una dispersione di risorse ed energie che vengono di fatto tolte alla fase di prevenzione.
«Dobbiamo intervenire su una città costruita negli anni Sessanta e Settanta soprattutto, con un’urbanizzazione molto forte − spiega l’assessore all’Ambiente del Comune di Genova Matteo Campora − Lo scolmatore del Fereggiano e del Bisagno sono opere di mitigazione. Ovviamente l’attenzione non deve essere solo sulla val Bisagno, ma anche sulle altre valli, oltre che sulla manutenzione delle colline e degli altri torrenti».
Le opere di mitigazione sono necessarie, ma serve anche altro: «Sono fondamentali anche le opere non strutturali, come la manutenzione del territorio e la cultura ambientale − ricorda Francesco Faccini del Distav − E occorre il monitoraggio, in previsione e in fase di evento».
Nella prima tappa dell’itinerario, Guido Paliaga, presidente di Sigea, illustra la conformazione del bacino idrografico del Bisagno, che si estende su una superficie di circa 96 km quadrati: in quest’area il consumo di suolo ha raggiunto quota 72%. Gli ultimi 1,4 km della lunghezza totale del torrente (25 km) sono coperti.
Successivamente, si raggiunge il ponte di Sant’Agata, poco a monte dalla stazione Brignole. Costruito durante il Medioevo, lungo il tracciato dell’antica via Aurelia di epoca romana, il ponte metteva in comunicazione il Borgo degli Incrociati con la chiesa di Sant’Agata. Composto da 28 arcate, per una lunghezza totale di 360 metri, il ponte fu distrutto dalla piena del 1452, per poi essere ricostruito e ampliato di un metro nella porzione di valle durante la seconda metà del XV secolo. Il ponte attraversava, verso ovest, la piana alluvionale del Bisagno, costituita prevalentemente da orti, sui quali nel corso degli anni sono state costruite strade e case (l’attuale zona di corso Sardegna, corso Galliera, piazza Manzoni e via Canevari). In sostanza quest’area, percorsa ogni giorno da veicoli, moto e persone, costituisce parte dell’alveo fluviale.
Nel corso dell’alluvione del 1970 non fu la piena del Bisagno a far crollare il ponte di Sant’Agata, ma le onde che, non riuscendo ad attraversare le arcate del ponte di Brignole, tornarono indietro, creando una forte onda di piena in direzione opposta.
Terza tappa: presso il convento di Sant’Agata si trova l’imbocco di Levante dell’omonimo ponte. Oggi si può vedere quel che resta delle prime arcate.
Il percorso arriva poi a Borgo Incrociati, che sorge al di sotto del livello dell’argine del fiume. Motivo per cui, anche in occasione della devastante alluvione del 2014, l’acqua raggiunse livelli sorprendenti: 170 cm nella parte alta e fino a 300 cm nella zona più a sud.
La quinta tappa ci fa scoprire Porta Pila, un tempo parte delle Mura Nuove, erette tra 1626 e il 1639, e posta a guardia dell’entrata orientale della città. Vi si arrivava attraversando il Bisagno sul ponte Pila. Il vecchio ponte in muratura era stato distrutto da una piena del Bisagno nel 1822 e venne ricostruito in ferro nel 1841, in asse con i futuri corso Buenos Aires e via XX Settembre. A occuparsi della misurazione dei dati della piena del 1822 fu il professor Antonio Pagani, che stimò una portata di 1.200 metri cubi al secondo al ponte Pila. Un dato che molti ingegneri idraulici incaricati di progettare la copertura del tratto terminale del Bisagno, all’inizio del XX secolo, considerarono esagerato: per la realizzazione dell’opera tenerono dunque conto delle misurazioni relative alle alluvioni successive, caratterizzate da portate di dimensioni decisamente inferiori. Non fu una scelta saggia, come dimostrano le piene degli ultimi decenni.
La sesta tappa del percorso organizzato dall’Ordine dei geologi liguri, insieme a Sigea e Distav, ci porta ancora più indietro nel tempo, addirittura al Neolitico, alla scoperta delle prime origini del capoluogo ligure: in occasione dei sondaggi per la realizzazione del parcheggio sotterraneo di piazza della Vittoria, è stato individuato a circa 12,5 metri di profondità un frammento di legno lavorato datato al radiocarbonio al 5.770 a.C. e cocci di ceramica riconducibili al Neolitico Medio. Ciò fa pensare all’esistenza di un insediamento presso la foce del torrente Bisagno.
L’itinerario si conclude alla foce del Bisagno: piazza Rossetti e le aree adiacenti, verso ovest, un tempo ospitavano il lazzaretto (già noto nel XVI secolo) e i cantieri navali, poi ampliatisi a discapito del primo. La copertura dell’ultimo tratto del torrente iniziò nel 1928, con un progetto che prevedeva un deflusso della massima piena del Bisagno non eccedente i 500 metri cubi al secondo. I lavori vennero ultimati nel 1931.