Una settimana dopo l’altra, ci siamo arrivati: è ora di occuparsi del berodo, il sanguinaccio ligure. Con piacere, considerata l’omonimia che ci affratella, e le caratteristiche di questo piatto, antico, tipico della cucina ligure, tradizionalmente consumato nel periodo natalizio.
La macellazione del maiale, in campagna, avveniva e avviene, secondo località, tra dicembre e febbraio, quando l’animale ha raggiunto la stazza ideale e il freddo è propizio alla macellazione casalinga e alla conservazione degli insaccati. Nelle nostre campagne il giorno scelto in genere era il 13 dicembre, festa di Santa Lucia. E il berodo era uno dei piatti del menù natalizio (di cui ci occuperemo per esteso il prossimo sabato) del genovesato.
Tipico della nostra tradizione, il berodo. E non solo della nostra. Se lo chiamiamo sanguinaccio lo troviamo, con tantissime varianti, in centinaia, forse migliaia, di altre tradizioni, in buona parte d’Italia, alla faccia della cosiddetta “Dieta mediterranea”, e nel mondo: ovunque si sia allevato e consumato il maiale. Il motivo è evidente: nessuno, in tempi meni ricchi di questi, si sarebbe sognato di buttare via le proteine del sangue del maiale, anche senza sapere cosa fossero le proteine. Sotto la gola dell’animale sgozzato si metteva un recipiente in modo da non sprecare neanche una goccia del rosso liquido, che veniva trasformato in sanguinacci o in migliacci. I primi sono degli insaccati (in budello, in vescica o nello stomaco) i secondi torte, frittelle, pasticci. In entrambe le tipologie sono presenti la versione salata e quella dolce.
La macellazione del maiale è cambiata nel tempo, oggi in Italia deve rispondere a rigorose normative igienico-sanitarie, ma le preparazioni fondamentalmente sono rimaste quelle di una volta. E ogni territorio ha la sua. Intorno al nostro berodo prosperano il biroldo toscano e il brôd astigiano, la Toscana ha altri insaccati a base di sangue, il buristo o burischio o buricco. E via girando per il mondo.
Veniamo ora al nostro sanguinaccio. Come viene fatto? Al sangue si mescolano in genere latte, panna, dadini di lardo, pinoli, sale, pepe, eventualmente altri aromi come alloro, cannella, chiodo di garofano. Esistono varianti, naturalmente, anche se non numerose come una volta, quando in pratica ogni cascina aveva la sua ricetta. Il risultato finale comunque è una specie di salamino o salamotto, color marrone rossiccio, che può pesare da due a sei etti. Oggi non dobbiamo occuparci di come si fanno i berodi: li troviamo pronti, e spesso ottimi, in salumeria. E già cotti, bolliti. Basta farli a fette, un po’ spesse altrimenti si sbriciolano, e metterli a riscaldare qualche minuto in olio bollente dove siano già arrivate a cottura nell’olio cipolle tagliate a fettine sottili.
Con questo avremmo terminato, le possibilità di preparazione, al giorno d’oggi, non lasciano molto spazio alla fantasia. Possiamo però divagare un pochino pensando ai contorni possibili.
Il primo è proprio la cipolla, che da ingrediente necessario a insaporire la frittura può diventare un contorno. Basta aumentarne la quantità. Altre idee possono venire dal menu ottocentesco del Natale genovese. C’era il berodo, e come contorni comparivano l’insalata mista, la scorzonera fritta e le radici amare di Chiavari. Contorni non soltanto del sanguinaccio (in tavola arrivavano anche cappone, tacchino, ecc…) ma anche. Si può provare.
Si può anche andare oltre Appennino in cerca di ispirazione. Essendo così diffuso, il sanguinaccio ha molti compagni di tavola. Non tutti adatti ai nostri gusti: in Svezia, per dire, si abbina al latte ghiacciato, forse è più interessante il contorno proposto in Finlandia, confettura di ribes rosso e vino rosso.
Vediamo cosa potrebbe suggerirci il maestro della cucina classica, forse il più grande cuoco di tutti i tempi, Auguste Escoffier. Nel suo “Le Guide Culinaire del 1903 (in italiano “Guida alla grande cucina, Franco Muzzio Editore, 1990) Escoffier si occupa anche dei sanguinacci, i “boudin”. Da notare che il libro di Escoffier è rivolto ai cuochi dell’alta ristorazione europea, e i sanguinacci, comunque preparati, sono un piatto decisamente popolare. Negli omologhi italiani di Le Guide Culinaire è difficile trovare questa ampiezza di orizzonte, i piatti popolari e rustici faticano a trovare posto, quando ci riescono spesso sono accompagnati da avvertenze come “non adatto a stomaci delicati”, ecc… Si potrebbe a questo punto fare una riflessione sulla capacità delle nostre classi dirigenti di recepire elementi della cultura popolare, portando il dialetto all’altezza della lingua e non viceversa, per esempio osservando quante razze canine sono state tratte dal mondo dell’agricoltura, della pastorizia, ecc.. a quello della cinofilia ufficiale in Italia e quante in Francia, Germania, Inghilterra, ma il discorso esce decisamente dal perimetro della nostra rubrica e qui ci fermiamo.
E torniamo ai boudin. Escoffier li associa a purée di patate – questo non ci sorprende e potremmo aggiungere le patate arrosto – alla composta di mele e alle mele. E questo neppure ci sorprende ma un po’ ci intriga. Vediamo la ricetta del Boudin nero alla normanna” (pag. 673).
«Tagliare a fette dei boudin neri freddi e cuocerli sauté con burro. Cuocere nello stesso modo al burro delle mele dolci, sbucciate, private dei semi e affettate, in ragione di 500 grammi di mele per ogni kg di boudin. Riunire i due elementi, saltarli insieme un istante e servire in un piatto profondo di terraglia».
Dopo tanto girovagare un sorso di vino ci vuole ma è difficile sceglierne uno che vada bene per ogni variante proposta. Con il berodo in sé andrebbe bene un rosso di medio corpo, per il resto… Placet experiri!