Nel 1938 Jean-Pierre Gontran de Montaigne, visconte di Poncins, decise di partire per l’estremo Nord del Canada, dove vivevano gli Inuit più “primitivi”, cioè quelli che non avevano contatti se non sporadici, rarissimi, con i bianchi. E vivevano come avevano vissuto per millenni, forse erano vicini all’età della pietra. Con loro l’aristocratico francese, discendente di Montaigne, trascorse quindici mesi. Perché? Gontran era giornalista, viaggiava per il mondo scrivendo reportage, ma lo scopo di quell’avventura non era descrivere la vita degli Inuit. E Kabloona (parola che significa non-Inuit, usata dagli Inuit per designare quei canadesi bianchi, missionari, funzionari governativi, poliziotti, ecc… con cui entravano in contatto) apparso per la prima volta in inglese negli Usa nel 1941, pubblicato quest’anno da Adelphi, non è un reportage. Che cosa è?
“Al centro di questo libro – spiega l’autore – non sono i miei vagabondaggi o il mio stato d’animo. Al centro devono stare gli eschimesi, con la loro vita e le loro caratteristiche, le loro riflessioni e ruminazioni, con la loro invincibile serenità a dispetto dell’esistenza fisicamente più sfiancante mai vissuta da essere umano sulla terra. È stato per la semplicità e l’immediatezza di quell’esistenza che sono andato nell’Artico a vivere con loro e vivere con loro non è stato facile. Più duro di tutto non è stato il rigore del clima (…). Il freddo era un problema ma un problema ancora più complesso era la mentalità eschimese (…) Una buona parte di questo libro, quindi, diventa di per sé la storia dell’incontro tra due mentalità e della graduale sostituzione, in me, della mentalità europea con quella eschimese” (pag. 19).
Gontran voleva entrare nel mondo eschimese, non solo fisico ma mentale, perché il proprio gli era diventato asfittico, insopportabile, gli sembrava frivolo, mediocre. E ci è riuscito, a prezzo di sacrifici durissimi e della spoliazione dei propri pregiudizi. La sostituzione della mentalità europea con quella eschimese è stata non solo graduale ma sofferta.
All’inizio l’Inuit sembra un essere che non pensa, il suo sorriso è “non -umano, avrebbe potuto essere la contorsione facciale di una volpe che fissa il sole, un riflesso animale” (pag 44). È sordido, fisicamente ripugnante, privo anche dell’intelligenza più pratica, incapace anche di reggere un cucchiaio a tavola. A poco a poco l’europeo capisce la relatività del proprio punto di vista: “Lo so cosa direte: l’eschimese ha la mente di un bambino. D’accordo, ma non è interessante che per gli eschimesi siamo noi a sembrare bambini? Siamo impazienti, facciamo migliaia di domande inutili, non appena le cose vanno male facciamo mostra di essere scontenti col rischio di perdere la faccia. Gli eschimesi si sentono continuamente in dovere di aiutarci, placarci, come se fossimo bambini che vogliono sempre averla vinta, altrimenti diamo in escandescenze. E poi siamo inetti, incapaci. Che cosa sappiamo fare? Costruire un igloo? No. Trasportare un pacco pesantissimo? No. Pescare con la fiocina? No. Non sappiamo nemmeno fare i lavori femminili” (pag. 176). In realtà, si scopre, gli Inuit non solo sono capaci di pensiero ma, pur vivendo un’esistenza materiale di inconcepibile brutalità possiedono una vita spirituale di infinita sottigliezza, piena di sfumature e tonalità. E anziché essere creature malinconiche, disperate e inclini al suicidio, considerate le condizioni in cui si trovavano, “erano persone gioviali, sempre ridenti, mai stanche di ridere” (pag 129).
Un giorno Gontran vede una donna Inuit che lo imita, tra le risate dei presenti, e osserva: “Questa gente mi aveva conosciuto da appena dieci minuti, per di più nella baraonda del nostro arrivo, eppure aveva colto subito i miei tratti salienti: il nervosismo, l’impazienza, la stupida arroganza dell’uomo bianco che, ovunque vada, si crede il padrone. Non ero mai stato parodiato in quel modo, con un discernimento insieme così penetrante e così poco aggressivo” (pag 258).
Illuminante è l’incontro di Gontran con un missionario francese, padre Henry, che viveva tra gli Inuit da anni e rappresenta in modo compiuto quello che l’autore sta diventando. Padre Henry non poteva più mangiare cibo da bianchi, nemmeno il riso. Non riusciva più a digerirli, preferiva pezzi di carne di foca o di pesce crudi e congelati. Il suo solo timore era che, diventato vecchio, sarebbe dovuto tornare tra i bianchi per ordine del vescovo. Conosceva a fondo quella che ormai era la sua gente: “Sapessi quanta concisione c’è nella loro lingua! Le loro frasi sono asciutte come i loro volti. Un luccichio nell’occhio di un eschimese ti dice più di una mezza dozzina delle nostre frasi sul desiderio, sulla ripugnanza o su qualsiasi altro sentimento (…) Le loro sfumature sono infinite (…) sono asiatiche e forse per questa ragione non sappiamo coglierle. Siamo così abituati ai nostri semplici sì e no che ignoriamo l’esistenza di una sfumatura tra un’affermazione e una negazione. Ce ne ho messo di tempo per capire cosa passava per la testa di queste persone, e ho dovuto imparare molte cose prima di sapere cosa aspettarmi da loro” (pag 249).
E lo scrittore scopre il proprio cambiamento. Resta un uomo bianco nel fisico, che non è allenato alle condizioni estreme dell’Artico, ma si adatta allo stile di vita degli Inuit. Che gli hanno insegnato un altro modo di vivere, a leggere “il grande Libro del Silenzio”.
“Mi hanno insegnato – è la conclusione – soprattutto ad accantonare le cose: la fretta, l’inquietudine, la ribellione, l’egoismo. Mi ci è voluto un anno per imparare queste lezioni e all’improvviso mi rendo conto che il mio anno al Nord non è stato, come pensavo, un anno di conquista degli elementi, ma di conquista di me stesso. E, vista la singolarità della conquista, l’Artico non è più una fonte di sofferenza ma di gioia. È il crogiolo dove, con lentezza e pazienza, in certa misura, si sono sciolte le scorie della mia natura. Qui nell’Artico ho trovato la pace, la pace che non ero mai riuscito a trovare fuori. Fatta eccezione per i monaci, o per chi affronta circostanze straordinarie come la guerra o il pericolo, non c’era altro modo per trovare la pace (…) Ciò che altrove avrebbe richiesto un grado sublime di abnegazione, qui era stato raggiunto grazie alla mera necessità” (pag. 305).