Tra qualche giorno arriveranno San Silvestro e Capodanno. Che cosa mettere in tavola? Quello che si vuole. La tradizione culinaria di fine d’anno in Liguria come in gran parte d’Italia si è indebolita, o forse si è rinnovata, lasciando il posto a un’usanza comune a tutto il territorio nazionale, comprendente tantissime varianti con tantissimi piatti di carne e di pesce presi un po’ da tutte le tradizioni locali italiane: zampone, cotechino, lenticchie, anguilla, baccalà, spaghetti con le vongole, cappon magro, branzino, orata, gamberi, aragosta, selvaggina, polenta, panettone, pandoro, pandolce, eccetera, eccetera. Ciascuno sceglie quello che preferisce. Ad aggiungere fluidità ai menù di fine d’anno si è aggiunto, in diversi territori della penisola (non in tutti), il venire meno della distinzione tra i piatti della notte di San Silvestro e quelli di Capodanno. Con il diffondersi dell’usanza di “aspettare l’anno nuovo” fuori casa, da amici o al ristorante, il baricentro della festività si è spostato nella notte tra il 31 dicembre e l’1 gennaio. Notte che, nella maggior parte dei casi non termina affatto alle 24 con l’apertura delle bottiglie di spumante o champagne ma si protrae con giochi, musica e balli fino al mattino dopo. Piatti un tempo destinati al Capodanno sono stati anticipati al 31 dicembre, mentre piatto forte dell’1 gennaio è diventata l’aspirina, in abbinamento con il caffè.
La Liguria non è rimasta estranea a questa mutazione e oggi per scegliere il menù di fine anno non abbiamo confini. Non li abbiamo nello spazio, e molti di noi per esempio si ispireranno all’Emilia per lo zampone e il cotechino, ma non li abbiamo neppure nel tempo. E allora, in cerca di suggerimenti, diamo un’occhiata anche al nostro passato.
Per quanto ne sappiamo, la notte di San Silvestro non era occasione di un particolare menù. Nel “Grande libro della cucina ligure” di Franco Accame, Silvio Torre e Virgilio Pronzati (De Ferrari editore, 2000), a pagina 75 troviamo scritto che il cenone di San Silvestro è «usanza piuttosto recente di cui pertanto non siamo in grado di consigliare il relativo piatto tradizionale».
Secondo alcuni, a Genova il 31 dicembre c’era almeno un piatto ricorrente: la trippa. (Vedi, nel sito del Comune, (http://www2.comune.genova.it/portal/template/viewTemplate?templateId=ssvqowe0c3_layout_x9v26ee0ci.psml ). Se è così doveva trattarsi di “centopelli”, l’omaso, la parte considerata più magra della trippa, caratterizzata dalla struttura lamellare ricca di pieghe bianche, un tempo la più comune sulle tavole liguri. Sarà stata cucinata con carote, cipolle, sedano, olio o burro, funghi secchi e pinoli, pomodori o concentrato di pomodoro.
Dell’1 gennaio, Capodanno, sappiamo qualcosa di più. Il primo piatto era costituito da corzetti alla polceverasca. Si tratta di una pasta fatta con farina (per quattro persone 500 grammi), uova (tre), sale, acqua. Varia la proporzione tra uova e acqua. L’impasto, lavorato per qualche minuto e lasciato riposare un’oretta, viene ridotto in pezzetti della grandezza di un grosso cece, a loro volta schiacciati con le dita in modo che formino degli otto o delle eliche. I corzetti sono tuttora diffusi e venduti in negozio. Secondo il sito del Comune di Genova i corzetti di Capodanno erano conditi con il sugo dell’arrosto di maiale. È possibile, tanto più che un pranzo “importante”, festivo, almeno un arrosto doveva comprenderlo e i corzetti saranno stati conditi con il sugo dell’arrosto di maiale servito come piatto forte, di cui sembra non si sia conservato il ricordo. Si è certi, invece, della presenza del fritto misto.
Gli ingredienti del fritto variavano in larga misura, presenze fisse dovevano essere cervello di vitello, fegato, magro di vitello e, in inverno, scorzonera e carciofi.
Tra i fritti potevano esserci gli “stecchi”. La “Vera cuciniera genovese” di Emanuele Rossi, Edizione Pentagora, 2013, prima edizione del 1865) li definisce «specialità della cucina genovese da porsi tra le più riputate ed eccellenti». Capodanno poteva essere l’occasione per permettersi questa specialità.
Per gli stecchi si utilizzavano stecchini di legno lunghi una ventina di centimetri (se trovano ancora in commercio), colorati di giallo-oro con un infuso di zafferano. Per fare questo piatto (vale la pena) occorrono, in misura variabile, da decidere, magro di vitello, cervella, animelle, schienali (a proposito delle frattaglie vedi la ricetta dell’8 settembre 2018 “Lattughe ripiene”, http://liguria.bizjournal.it/2018/09/lattughe-ripiene/), carciofi, funghi porcini. Tutti gli ingredienti (tranne gli schienali che vengono aggiunti crudi) sono tagliati a pezzi regolari e rosolati nel burro, ciascuno secondo il suo tempo di cottura e poi infilzati uno accanto all’altro negli stecchi, e ricoperti da un composto fatto di mollica di pane inzuppata nel latte o nel brodo, uova, parmigiano grattugiato, sale e un trito dei ritagli della carne fatta a pezzi. Le estremità degli stecchi restano scoperte, gli stecchi assumono una forma affusolata, vengono passati nella chiara d’uovo, poi nel pan grattato e fritti in olio bollente.
Non dovevano mancare le insalate, e la frutta e i dolci di Natale. Secondo quanto ci racconta Nicolò Bacigalupo (1837 – 1904) nella poesia “O tondo de Natale” (Sagep, 1968, vedi http://liguria.bizjournal.it/2018/12/menu-del-natale-genovese/): il pranzo del 25 dicembre terminava con pandolce, mandorle, pistacchi, confetti di cannella, frutta candita, nespole, arance, ciliegine, uva, zibibbo, datteri, mandorle, fichi secchi, mostarda, noci, mandarini, torrone, frutta sotto spirito, pere butirro e martine, mele carle, mele ruggine,/ mele cannelline,/ biscotti di ogni genere,/ ricotta di Voltaggio/ stracchino. In quest’ordine, con ricotta e formaggio alla fine.
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