Da New York, dove hanno visto la luce nel 2006, gli home restaurant si sono diffusi un pò dappertutto acquisendo i nomi più svariati: guerilla restaurant, supper club underground dinner, fino alle paladar a Cuba. Negli ultimi anni anche l’Italia ha visto un certo fermento nelle diverse regioni. Tra queste anche la Liguria.
I riflettori sono stati puntati ad aprile sull’Home restaurant di Nonna Leo, il primo in Liguria. «Abbiamo fatto tutto questo per mia nonna e infatti l’inaugurazione è avvenuta il giorno del suo compleanno», dice Fabrizio Siragusa, nipote di Leonilda Tomasinelli, alias Nonna Leo, che aggiunge: «la nonna ha un libro di ricette del 1901. Viviamo insieme da quindici anni e ho imparato tutti i segreti della sua cucina anche perché non ha mai voluto mangiare cibi che non fossero freschi».
La nascita del primo home restaurant a Genova è avvenuta quasi per gioco, per dare forma a una passione condivisa tra un nipote e la propria nonna. L’inaugurazione di aprile tuttavia è stata un autentico successo, addirittura inaspettato, e ha registrato l’ingresso di 350 persone. Naturalmente non sono mancate le difficoltà come ci spiega ancora Siragusa: «Proprio di aprile è l’intervento del ministero sulle regole da applicare agli home restaurant. Questo ci ha ovviamente condizionato».
Si tratta della risoluzione n. 50481 del 10 aprile 2015, nella quale il ministero dello Sviluppo Economico esprime il proprio parere su come «configurare l’attività di cuoco a domicilio», valutando anche “se tale attività possa rientrare fra quelle soggette alla Segnalazione Certificata di Inizio Attività (Scia) da presentare al Comune di residenza, al fine di stabilire in modo chiaro l’iter da seguire per garantire il controllo dei requisiti professionali a tutela del consumatore finale”. Questo è quanto si legge all’inizio della Risoluzione mentre continuando a leggere si trova che “l’attività in discorso, ad avviso della scrivente, anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela”.
Questo giudizio, secondo alcuni, complica parecchio le cose per chi decide o deciderà in futuro di cimentarsi con questo tipo di esperienza. Perchè anche se si tratta di un parere è possibile che diverse amministrazioni tendano ad adeguarsi per estendere agli homer (così si chiamano i cuochi a domicilio) le stesse regole degli esercizi. Attenzione, però, perché al momento in Liguria non si è ancora dato seguito a questa risoluzione.
Siragusa ci spiega: «Noi abbiamo deciso di assolvere a tutta una serie di adempimenti: dall’Haccp (Hazard Analysis and Critical Control Points) alla Scia. Anche le temperature dei frighi, per dirne una, viene verificata in caso di controlli esattamente come per un’attività tradizionale». Certo è che se ci fosse una vera e propria equiparazione questa ridurrebbe, non poco, lo spazio di manovra per un’attività che non nasce per costituire una fonte di guadagno significativa.
«Noi siamo partiti con il desiderio di fare qualcosa di divertente in occasione del compleanno di nonna. Le abbiamo aperto una pagina Facebook e ha raggiunto in poco 3.500 like. Vero è che col senno di poi non sono così convinto che a livello economico possa essere conveniente a queste condizioni. Credo sia giustissimo esigere le stesse regole di un ristorante sul piano sanitario, proprio perché in definitiva si deve salvaguardare il consumatore. Tuttavia, equiparare del tutto non è a mio avviso corretto perché di fatto non siamo la stessa cosa: per esempio, in un home restaurant devi necessariamente prenotare e non hai la possibilità di presentarti all’ultimo. Anche in termini di numeri di posti disponibili, poi, siamo su altre cifre». Il risparmio concreto è, eventualmente, l’affitto del locale, che incide ben poco sulla convenienza di rendere tale attività un vero e proprio business.
I lati positivi, comunque, non mancano e uno di questi è l’affluenza degli stranieri che vengono a conoscenza di certi posti grazie ai social.
«Sì, di stranieri ce ne sono stati», aggiunge Siragusa, «sono già arrivati ospiti da Seattle, dalla Francia e persino dal Giappone. Tuttavia, credo che il nostro caso sia particolare perché abbiamo avuto un forte impatto mediatico». Un quesito aperto e che dovrebbe essere preso in considerazione nelle sedi legislative opportune è fino a che punto l’home restaurant possa essere una fonte di guadagno in termini monetari, fermo restando il ritorno come socializzazione, che poi è alla base del concetto di home food.
Dal punto di vista dei pubblici esercizi e di chi difende i loro interessi le cose sono molto chiare: «La categoria non è contenta», spiega Giorgio Bove, presidente dell’Associazione ristoranti Fepag-Ascom di Genova, che precisa «d’altra parte Genova sta diventando una città turistica e bisogna aprirsi verso soluzioni che prima non erano contemplate. E’ chiaro che le regole debbano essere rispettate da tutti, dall’Haccp alla Scia». La moderata apertura è forse giustificata dallo scetticismo nei confronti della diffusione degli home restaurant: «È un fenomeno che probabilmente nelle città molto grosse può prendere piede ma qui da noi non mi sembra che abbia seguito», aggiunge Bove.
Sul piano degli adempimenti normativi, poi, Ascom fa presente che l’attività di home restaurant non può essere considerata come attività occasionale anche se rimane nei 5.000 euro lordi annuali. Questo nel momento in cui venisse riconosciuta per legge alla stregua dell’attività di somministrazione di bevande e alimenti. «L’articolo di legge non è più corretto e applicabile perchè tale norma rispetto alle attività commerciali è stata abrogata dalla legge di Stabilità per il 2015». Di conseguenza, se l’iter normativo seguisse il percorso auspicato dalle associazioni che rappresentano i pubblici esercizi, per chi volesse svolgere l’attività di home restaurant e intendesse farsi pagare sarebbe necessario aprire la partita Iva indipendentemente dal volume d’affari.
Sul fronte opposto, il mondo del social eating si sta muovendo già da un po’ di tempo con la richiesta di regole certe sia per tutelare chi un home restaurant lo vuole aprire, sia per chi decide di andare a mangiarci. C’è addirittura un disegno di legge, il Ddl 1271 del 27/02/2014 sull’Home Food presentato al Senato, ma mai discusso. E anche una petizione online su Change.org per chiederne l’approvazione in tempi brevi. Lo scopo è, naturalmente, quello di distinguere i due tipi di attività.
La partita è ancora aperta e al momento gestire il proprio home restaurant è tutt’altro che complicato: basta accedere a una piattaforma come Gnammo, vero e proprio punto di incontro virtuale tra domanda e offerta, e il gioco è fatto. Sempre nel capoluogo ligure, quasi in contemporanea con Nonn Leo, si è aperto il primo home restaurant vegano della nostra regione, Juls&Deb. «È cominciato tutto durante una cena a casa di amici – spiega Deborah Iadonisi – parlando è uscita questa idea dell’home restaurant e da lì abbiamo cominciato a incuriosirci e a informarci. La passione per la cucina l’ho sempre avuta e non mi è stato difficile lanciarmi in quest’avventura». Si comincia in modo semplice: «La pagina facebook, un sito internet, un logo fatto da noi. Ciò che conta di più, in ogni caso, è il passaparola sia attraverso la rete che vis a vis».
Trasformare tutto questo in un lavoro è più facile a dirsi che a farsi: «Facendo le serate ci siamo rese conto che per renderlo la prima entrata occorrerebbe avere ospiti quasi tutte le sere e sarebbe troppo impegnativo», aggiunge Iadonisi. In ogni caso, quel che rende il fenomeno degli home restaurant più interessante è proprio l’idea, da parte di chi decide di andare a mangiare, di fare qualcosa di diverso, di vivere un’esperienza in qualche modo alternativa e di avere un contatto diretto con lo chef, visto che si mangia tutti insieme: «Gli ospiti ci informano se hanno particolari esigenze, come ad esempio intolleranze a qualche alimento, ma quasi mai vogliono conoscere il menu e preferiscono la sorpresa. Nella scelta dei piatti, comunque, tengo conto innanzitutto di frutta e verdura di stagione. Per il resto punto sulla varietà cercando anche di creare alcune ricette personali».
Anche fuori dal capoluogo ci sono esempi di home restaurant come Il giardino segreto, a Castelnuovo di Magra, in provincia di La Spezia. Anche in questo caso ci si mette in contatto in maniera immediata: è sufficiente andare sulla pagina Facebook dove, oltre a numerose foto che danno un’idea sia dei piatti che della location, ci sono tutti i contatti per effettuare le prenotazioni.
Allo stato dell’arte, dunque, prevale un certo grado di incertezza: numerosi homer stanno cercando di acquisire alcune certificazioni, quale l’Haccp, che saranno verosimilmente richieste in un’ipotetica legge sulla materia. Di certo, l’orientamento normativo sarà condizionante a seconda che si decida di equiparare del tutto o in parte gli home restaurant agli esercizi commerciali tradizionali.