Venerdì scorso, 16 novembre, la Commissione europea ha approvato, senza emendamenti, il piano genovese legato al progetto internazionale di cui Genova è coordinatrice: Climate Adaptation Partnership, un network internazionale che si sta occupando del tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici nelle aree urbane. In attesa di approfondirne i temi (verrà pubblicato a fine mese), si può dire che si tratta di una piccola-grande vittoria per il Comune e il neonato ufficio Resilienza e Agenda urbana europea guidato da Stefania Manca. «Raramente una singola città diventa capofila – spiega – di solito si ha a che fare con ministeri di Stati esteri, o comunque strutture molto più complesse di un singolo Comune. Passeremo alla fase di implementazione a partire da gennaio».
Resilienza è stata la parola d’ordine oggi alla seconda giornata della Genova Smart Week. Il sindaco di Genova Marco Bucci ha ricordato che «in Italia il termine resilienza ha sempre un’accezione negativa, cioè “sopravvivere ai disastri”, mentre all’estero ha un’accezione positiva, perché significa “essere sempre più forti, più robusti”. Vorrei che anche nel nostro Paese si desse al termine un’accezione positiva».
Giulia Macagno, della Banca europea per gli investimenti, segnala che le opportunità per investire in resilienza e prevenzione ci sono: efficienza energetica, aree verdi, mobilità sostenibile, sistemi urbani di drenaggio. «Anche i privati hanno interessi in questa direzione, penso ai fondi di investimento in ambito real estate, alle industrie, ai proprietari o affittuari. Tuttavia un freno è rappresentato dal timore che il cambio di amministrazioni o di governo possa far cambiare le carte in tavola, oppure anche la difficoltà a raggiungere massa critica per giustificare tali investimenti». Sul fronte pubblico invece non si investe per problemi di budget, o per la difficoltà di trovare finanziatori a lungo termine, oltre che per alcuni limiti delle amministrazioni a non capire l’importanza del tema.
Fondamentale diventa la formazione, come sostiene Emilio Domingo Iannarelli, della struttura di missione Italiasicura: «C’è da sviluppare una resilienza organizzativa, perché altrimenti il rischio è che a lavorare, nelle fasi topiche, sia solo la Protezione civile».
L’esigenza è anche avere un’agenda urbana nazionale. Chi si sta muovendo molto bene è la Città di Milano, una delle cinque al mondo ad aver istituito una direzione Resilienza. Piero Pelizzaro ha illuminato la platea con una relazione di grande impatto e molto concreta su quanto sta facendo Milano per la riduzione del consumo di suolo, per l’economia circolare, per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici: «Apriremo i navigli, le città non sono state costruite per le automobili, pianteremo 3 milioni di alberi da qui al 2030, si parla di un miliardo e mezzo di investimento, ma soprattutto stiamo studiando quali alberi piantare, quali siano più adatti. Tutto ciò implica che le persone avranno più piacere a passeggiare per le vie, essendo all’ombra e, di conseguenza saranno anche stimolate a fare acquisti». Oggi Milano ha una raccolta dell’umido del 67% e grazie a Orange fiber viene trasformato in filato per gli abiti di Salvatore Ferragamo, solo per fare un esempio. Guardando la raccolta dell’umido a Genova si può pensare che su questo fronte occorrerà ancora fare molta strada.
«Dobbiamo ripensare anche i servizi comunali alla luce dei cambiamenti demografici, con l’aumento degli over 85 e dei giovani che vedono Milano come un luogo dove trasferirsi», aggiunge Pelizzaro. Senza dimenticare che il 4 agosto in piazza Duomo si misuravano 42 gradi centigradi contro i 35 della periferia. «Oggi non esistono indicatori di resilienza, che ci indichino come misurare i cambiamenti dovuti per esempio all’inaugurazione di nuovi parchi, ne abbiamo in programma 20 entro il 2030, o la riduzione del consumo di suolo prevista dal 74 al 70% o il fatto di puntare sui tetti e le pareti verdi, 1 milione di metri quadrati». Scelte lungimiranti, che riguardano anche il tipo di materiali usati in edilizia per esempio. Si parla di Parigi che dal 2025 sta pensando di non usare più il cemento per le nuove costruzioni.
La collaborazione con Milano e Torino per esempio coinvolge anche Genova nell’ambito del progetto “life derris”, il primo progetto europeo rivolto alla P.A. e alle piccole e medie imprese per la riduzione dei rischi causati da eventi climatici estremi, che ha creato uno strumento di auto-valutazione dei rischi e di prevenzione a disposizione delle Pmi e sviluppa strumenti finanziari per convogliare capitali destinati alla riduzione dei rischi.
Genova, nonostante tutto quello che è successo, ha dimostrato di saper sopportare le più grandi tragedie, ma oggi ha avviato un nuovo percorso: è partito un lavoro organizzato su tre tavoli tematici per realizzare entro il giugno prossimo, un documento di sviluppo innovativo territoriale in ambito economico/urbanistico. Si pensa anche a realizzare una piattaforma partecipata multilivello che agisca da collettore di notizie, best practice e tool destinata a diversi pubblici, da policy maker, decisori eccetera.
Il Cnr ha illustrato il progetto di realizzazione del centro di competenza sulla sicurezza e ottimizzazione delle infrastrutture strategiche. Di cui sono stati identificati 5 domini applicativi: porto, sistema produttivo, aree strategiche dei trasporti, dell’energia e del mondo idrico/invasi, Coinvolti 43 attori tra pubblico e privato. Entro fine anno-gennaio 2019 la costituzione ufficiale, con la formula dell’associazione con personalità giuridica.
Tre gli asset, tre i tavoli di lavoro che si sono confrontati nel pomeriggio: grigio (sviluppo innovativo delle infrastrutture, reti e comunicazioni) coordinato da Francesco Valdevies di Leonardo, verde (cambiamenti climatici e rigenerazione urbana), coordinato da Stefano Sibilla, vicepresidente dell’Ordine degli Architetti di Genova e azzurro, coordinato da Paola Dameri (professore associato di economia aziendale) sugli impatti economici nella community e nelle imprese. «Se ossiamo lavorare con una progettazione condivisa di medio lungo termine e definita, si possono creare sinergie con quello che già c’è e c’è molto – sostiene Manca – la condivisione sin dall’inizio dei contenuti è fondamentale».
«La prima esigenza emersa – annuncia Valdevies – è quella della mobilità. Tante le idee già proposte, come l’usare le aree dismesse per fare degli hub di biciclette. Tecnologie e infrastrutture vanno distinte, ma occorre avere la formazione giusta per capire come vengono utilizzate».
«Dobbiamo cambiare registro – aggiunge Sibilla – pensare diversamente e ragionare in un’altra maniera, porre obiettivi ambiziosi per andare a risolvere i problemi della fragilità del nostro territorio, facendo una rivoluzione verde, dando al tema dell’ambiente e del paesaggio la giusta importanza dal punto di vista economico e della qualità della vita». Il tavolo green ha anche fatto un primo screening delle iniziative già presenti in città, scoprendo progetti importanti del Cnr, del Comune, dell’Unesco, che stanno mappando il territorio. «Un’altra esigenza emersa è stata quella di conoscere soprattutto il nostro sottosuolo, ma anche la cosiddetta valutazione del rischio: quanto ci costa fare una cosa, ma soprattutto quanto potrebbe costarci non farla, a partire da un giardinetto che rende il terreno permeabile».
«Per quanto riguarda gli impatti economici su community e imprese – spiega Dameri – ci siamo focalizzati più sulle persone come individui, dai bimbi piccoli agli anziani, abbiamo parlato di formazione anche per le imprese, di migliorare con la comunicazione, ma anche affrontato il tema delle policy, in che modo possono essere un elemento che spinge verso comportamenti virtuosi. Un tema che è emerso è quello della pianificazione integrata: mappe, non di tipo architettonico, ma di mappe umane ed economiche, per capire cosa sta sul territorio, gli agglomerati nei diversi territori, le mappe di mobilità, chi si muove per andare dove. Diventa necessario che le imprese o le scuole comunichino i flussi. I colli di bottiglia più citati sono la burocrazia e, all’interno della stessa pubblica amministrazione, ricevere input più chiari per il territorio. C’è anche da dire che il tessuto delle pmi è resistente all’offerta di formazione, non ritenuta fondamentale a confronto della quotidianità del lavoro».