La politica ha per oggetto l’organizzazione, l’amministrazione e la direzione della vita pubblica. Quali competenze occorrono per esercitare queste attività? È una questione dibattuta, nella cultura occidentale, almeno da quando esiste la polis greca. Grandi pensatori, da Platone e Aristotele fino a filosofi, politologi e sociologi dei giorni nostri se ne sono occupati. Non saliremo alle loro altezze, ci limiteremo a constatare quanto è venuto alla luce in questi ultimi decenni. Durante i quali si è diffusa la convinzione che il politico sia quello che utilizza la comunicazione, il linguaggio, e il tecnico quello che conosce le cose “concrete”. E le mette in pratica. Al politico (sempre meno apprezzato) rimarrebbe la responsabilità di parlare, parlare, e indicare l’indirizzo da seguire, salvo quando le cose si mettono al peggio e allora si affida la direzione della cosa pubblica direttamente al tecnico.
Un’ottica che ha portato alla politica dei talk show e degli slogan e non ha potuto nemmeno giovarsi compiutamente della competenza dei tecnici, perché i Monti e i Draghi hanno pur sempre dovuto sottoporre i loro provvedimenti ai parlamentari, in gran parte politici, e comunque sempre tenuti a rispondere a esigenze elettorali. Dopo l’esperienza della cosiddetta “prima repubblica”, diretta dai professionisti del logos (spesso rimpianti e considerati dei titani rispetto ai politici di oggi), culminata con la crisi di Tangentopoli e la crescita fuori controllo del debito pubblico, e quella degli anni successivi, in cui nomine e cariche importanti sono andate a persone prive di esperienza sia politica sia professionale, qualche punto fermo possiamo stabilirlo, anche senza addentrarci nei massimi sistemi.
Il punto fondamentale è che il politico deve dirigere l’amministrazione ma con una competenza diversa rispetto al tecnico. Deve conoscere il territorio e i suoi bisogni e sapere mediare tra diverse, spesso contrapposte, esigenze. E decidere con cognizione di causa. Il tecnico ha il compito di tradurre tali decisioni in provvedimenti, utilizzando la propria professionalità. Per decidere, però, anche il politico deve conoscere le cose. Deve sapere dialogare con il tecnico, deve saper valutare le analisi effettuate dalle figure che lo supportano.
Quindi se è vero che un bravo medico non si trasforma automaticamente in un bravo assessore o ministro alla sanità, è anche vero che un assessore o un ministro devono possedere, a prescindere dai loro titoli di studio, una formazione politica o professionale tali da essere in grado di decidere l’indirizzo del loro assessorato o ministero. Ben vengano allora docenti, professionisti, manager, imprenditori disposti ad assumersi responsabilità politiche. Per avere successo devono assumere nuove competenze, diventare dei politici, ma se ci riescono possono fornire un contributo prezioso alla società. Il problema è che, visto il degrado progressivo della politica e il venire meno della sua credibilità (a partire dal 2013 quello del non voto è costantemente il “primo partito” d’Italia) non è facile trovare esponenti affermati della società civile disposti a fare il salto nell’arena politica. A trasformarsi in civil servant, ponendo la propria competenza professionale al servizio della collettività.
È quello che vuol fare Antonello Guiducci.
Sessantaduenne, Guiducci lavora dal 1985. È in pensione dall’aprile 2024. E ha deciso di candidarsi con la Lega alle prossime elezioni regionali.
«L’ultimo incarico che ho ricoperto – racconta – è quello di ceo di Aster. È anche quello che mi ha portato a candidarmi. I miei capisaldi prima di Aster sono stati Italimpianti, poi Castalia, Poi sono stato in Metis, diventata T-Bridge, poi in Ansaldo. Durante il periodo in Metis sono stato amministratore delegato del Cesen Centro Studi energetici, partecipata dalla stessa Metis. Tutte queste esperienze mi hanno dato un imprinting manageriale forte, mi hanno fatto capire la necessità per un manager di dotarsi di regole, di sviluppare l’ufficio controllo di gestione, la pianificazione e il costante rilievo e reporting dell’andamento aziendale».
– L’esperienza di Aster sembra essere stata decisiva nel suo percorso. Come è andata?
«Ero arrivato in Aster attraverso una selezione della Praxi, senza conoscere nessuno dell’attuale amministrazione pubblica. L’input che ebbi dal consiglio di amministrazione era che l’azienda andava ridimensionata in base a uno studio effettuato. Mi hanno detto: vedi tu, o la ridimensioni o la fai crescere. Era una bella sfida. E io ero molto perplesso, eravamo alla fine del 2019, proprio a cavallo tra il 2019 e il 2020, l’azienda veniva da un’amministrazione Doria in cui non aveva mai visto il sindaco. L’impatto con l’amministrazione Bucci era stato devastante perché il sindaco Bucci mensilmente chiamava i vertici a rapporto e questi non riuscivano a rapportarsi correttamente. Il sindaco mi disse: quando si viene qui bisogna avere le idee chiare, bisogna sapere cosa dire, e io mi resi conto che chi mi aveva preceduto andava a queste riunioni con il sindaco senza avere una traccia di riferimento su cosa dire. Pensai subito: io alla prima riunione voglio andare con un mio documento».
– Aster aveva una capacità realizzativa adeguata al suo compito?
«In Aster c’erano una grandissima capacità realizzativa, degli ottimi professionisti a tutti i livelli, ma che non avevano un filo conduttore. E invece avere tutti i giorni una persona che ti ascolta, che quando hai un problema ti dice come andare avanti, con cui tu ti confronti, che ti dà delle direttive e che tutti i giorni ti chiede un riscontro, è fondamentale. È quello che dà lo spirito di squadra, è quello che Bucci, su scala molto più grande e in maniera più strutturata, ha fatto con il ponte. Ha gestito così la vicenda del ponte, con un metodo ingegneristico che spero che porti in Regione ad alto livello e che io spero di introdurre a livelli più bassi».
– Quali furono i suoi primi provvedimenti?
«Nel mio primo report portai e misi a punto con il sindaco la mission e la vision dell’azienda, cioè in pratica ci dicemmo chiaramente cosa doveva fare l’azienda e dove doveva andare. Parlammo di organizzazione, mettemmo giù un primo organigramma e poi via via cominciai a raccontare, a portare numeri, numeri sulla produzione aziendale, su quante ore venivano lavorate, e come venivano lavorate, quanti erano gli straordinari, quanto assenteismo c’era, tutti dati con una valenza notevole»
– Quali risultati ha ottenuto?
«Aster quando sono arrivato aveva 320 dipendenti, quando sono andato via ne aveva 400, ma io ho assunto circa 300 persone: ci sono stati un fortissimo turn over e un fortissimo ringiovanimento. L’azienda è profondamente cambiata in questi anni. Era stata impoverita terribilmente dalle giunte di sinistra, aveva toccato il picco più basso nel 2018 e poi ha cominciato a risalire. Nel 2018 era arrivata a un picco di dipendenti minimo. Siamo passati da un fatturato di 30 milioni a uno di 40, è cresciuto il numero delle persone ed è anche migliorata l’immagine dell’azienda. Ho aumentato l’organico perché sono aumentati i lavori. Abbiamo tenuto sotto controllo il ricorso alle ditte terze, che non è completamente annullabile perché occorre un minimo di flessibilità, certe attività non rientrano nel know-how e nella tecnologia dell’azienda».
– Quale è stato il principio base della sua conduzione dell’azienda?
«La mia forza era stata quella di avere trovato il modo di avere tutta l’azienda sotto controllo e questo l’ho fatto tenendo stretti a me gli uffici principali, quello del personale, l’ufficio amministrativo al cui interno c’erano anche la parte finanziaria e il controllo di gestione, la parte approvvigionamenti, in sintesi il controllo dei costi. Io questo nucleo lo tenevo strettamente sotto controllo, inoltre con periodicità settimanale mi incontravo con tutti i capi operativi per sapere e per farmi raccontare, per dare direttive su come operare».
– Quindi ha accentrato la gestione?
«Bisogna anche saper delegare un processo, portare un metodo. In Aster la gestione è complessa. Il Comune finanzia la società attraverso circa 500 atti amministrativi all’anno. Ogni atto a sua volta attiva diversi lavori, diciamo una decina in media. Ognuno di questi singoli lavori ha la sua rendicontazione. Quindi i centri di costo alla fine non sono più 500 ma magari 5.000. I singoli costi devono corrispondere al finanziamento, però il finanziamento è a cifra tonda, quanto è costato tutto il lavoro lo sai a consuntivo. È vero che fai una stima: per fare un esempio, l’asfaltatura di quella strada costa 50 mila euro, ci sono prezziari ecc…, ma poi in realtà il lavoro ti può costare 48 come 55, perché solo quando sei lì vedi se ci sono le fognature a posto, se c’è da cambiare la tombinatura eccetera. Spesso hai preventivato di fare 100 metri e ne devi fare 200, quindi il vero costo finale ce l’hai a lavoro eseguito. Poi ci sono i residui di anno in anno… Tutto questo stava nella testa di un solo collega, bravissimo, ma il controllo della gestione non può basarsi su una figura di “one man alone”. Noi abbiamo costruito un processo, ci siamo dotati di un sistema informatico e di un’organizzazione adeguati. Credo che questo sia un esempio che fa capire la differenza tra una gestione destrutturata, basata sulle capacità dei singoli, e una gestione oggettiva, basata sull’applicazione di un metodo».
– È una gestione che si può applicare anche nella sfera pubblica?
«È quello che ho visto fare dal nostro vicesindaco Piciocchi. Che si è trovato con delle deleghe operative enormi. La sua grande capacità è stata proprio quella di far sedere le persone intorno a un tavolo e di voler avere sempre sotto controllo la situazione. Facendo così permetteva anche al sindaco di avere la situazione sotto controllo, di stare sempre sul pezzo. Io nel mio piccolo vorrei portare questo modello all’interno della pubblica amministrazione. Questa visione manageriale tradotta nella pubblica amministrazione vuol dire anche agire sempre per il territorio, ascoltando i problemi del territorio e cercando soluzioni. Potrebbe essere la strada giusta per offrire agli italiani un’immagine diversa della politica e far diminuire l’astensione dal voto».