“La Liguria è (ancora) una regione del Nord?” è il titolo del libro di Maurizio Conti – professore ordinario al Dipartimento di economia dell’Università di Genova – pubblicato nei giorni scorsi da Erga edizioni. Ed è una domanda alla quale l’autore risponde nelle ultime pagine del suo lavoro, dopo avere preso in esame un insieme sufficiente di ricerche, dati e statistiche: “La risposta che ci sentiamo di dare è sì: la Liguria, per fortuna, è ancora una regione del Nord. Lo è soprattutto per la presenza di diverse imprese innovative in alcuni comparti ma anche per l’esistenza di talune eccellenze in alcuni campi di ricerca. Tuttavia rimarrà agganciata al Nord solo se riuscirà a invertire la rotta. Rapidamente. E per farlo è necessario, come si è visto, un cambiamento chiaro e ad ampio spettro in diverse politiche pubbliche” (pag. 283-284).
Per giungere a questa conclusione Maurizio Conti prende in esame i possibili fattori di declino (comuni al paese nel suo complesso, anche se in misura più accentuata in Liguria rispetto al resto del Nord Italia): scarsa innovazione, insufficiente adozione delle tecnologie digitali e di pratiche manageriali più efficienti: fattori riconducibili al nanismo che caratterizza molte imprese italiane. Le piccole imprese rispetto alle grandi hanno maggiori costi fissi associati all’innovazione tecnologica e, essendo a conduzione familiare, tendono nella selezione dei manager a privilegiare la lealtà sulle capacità.
Perché questo nanismo imprenditoriale? Che cosa è successo in Liguria? “Il quarantennio 1980-2019, in particolare il primo ventennio, è stato caratterizzato da importanti trasformazioni strutturali nell’economia ligure. In termini di valore aggiunto, nel 1980 l’industria in senso stretto (vale a dire i settori manifatturieri, estrattivi e l’energia) produceva a prezzi correnti poco più del 23% del valore aggiunto regionale, le costruzioni il 5%, il settore primario il 3% e i servizi il 68%. Scomponendo il settore servizi, il settore “servizi 1” (commercio, trasporti, ristorazione) produceva circa il 31% del valore aggiunto, mentre i “servizi 2” (attività finanziarie e assicurative, attività immobiliari, attività professionali, scientifiche e tecniche, amministrative e servizi di supporto), circa il 22% con le rimanenti attività di servizi, corrispondenti approssimativamente a pubblica amministrazione, difesa, scuola, ecc…, responsabili per circa il 15% del valore aggiunto. (…) Negli anni Ottanta il processo di trasformazione strutturale è continuato, cosicché nel 1991 in Liguria il peso dell’industria ha perso altri sei punti percentuali e il settore “servizi 3” è arrivato a rappresentare quasi il 21% in Liguria contro il 15% al Nord: in altre parole c’è stata in Liguria una espansione relativa dello Stato attraverso la produzione di servizi non di mercato”.
In questo processo di deindustrializzazione ha giocato un ruolo decisivo la crisi delle partecipazioni statali che rivestivano nella regione, e soprattutto a Genova un ruolo importante: se nel 1971 si contano a Genova 58 imprese con più di 500 addetti, nel 1981 scendono a 50, per giungere a 31 nel 2011.
Il vuoto lasciato dall’industria solo in parte è stato colmato dalla crescita del settore turistico e dai traffici portuali. A questo proposito Conti fa giustizia di un luogo comune che, insieme a quello del “piccolo è bello” e ad altri, ci ha afflitto in questi anni. Il turismo non è, come si è detto spesso, “il petrolio dell’Italia”, in particolare del Sud o della Liguria. Ben venga, come benvenuta, a nostro avviso, è stata la creazione a Genova, dell’area expo nel porto antico. Ma si tratta di un settore a bassa innovazione, bassi investimenti, bassi, e necessariamente in gran parte non a tempo indeterminato, stipendi. Parigi, Londra, New York accolgono importanti flussi turistici ma la loro ricchezza non si basa certo su di essi.
“La Liguria è (ancora) una regione del Nord?”, anche a questo proposito è ampiamente documentato. Comunque la consapevolezza dei limiti di questo settore e della direzione in cui bisogna puntare per la crescita si sta diffondendo. Pochi giorni dopo la presentazione del libro, Mons. Marco Tasca, Arcivescovo Metropolita di Genova, nel discorso pronunciato il 24 giugno in Cattedrale dopo la recita dei Vespri prima di presiedere la processione di San Giovanni Battista, così ha affrontato il tema: «… A Genova sta crescendo molto il settore turistico, vocazione peculiare del nostro territorio, per la sua storia e per la sua bellezza naturalistica e artistica. Nondimeno, è decisivo che siano promossi, anche con opportuni investimenti pubblici, altri comparti produttivi, non solo quelli industriali tradizionalmente legati allo sviluppo economico della nostra città, ma anche – e soprattutto – settori dinamici, innovativi. È molto positivo, al riguardo, il ruolo attivo di sinergie che stanno creando numerose nuove opportunità in campi particolarmente innovativi (intelligenza artificiale, robotica, biomedicale, ecc.) … Quando l’impresa, l’amministrazione, il mondo culturale e universitario collaborano tutti ne riceviamo sicuro giovamento».
Il sogno del vescovo di Genova è «Una città che sia non solo una perla di architettura, paesaggio, stile di vita, non solo un importante centro amministrativo e industriale, ma anche un grande laboratorio per i servizi e per l’innovazione».
Quanto all’attività portuale, l’autore sottolinea la sua importanza ma ne indica anche i limiti: l’indotto non è più quello di un tempo, e le città scalo devono subire congestioni di traffico, strutture di collegamento sovradimensionate e la cessione alle attività logistiche di aree che potrebbero ospitare attività più in grado di creare valore in loco.
È vero, e non caso in certe città come La Spezia, dove il porto, non avendo la tradizione millenaria che ha a Genova ma essendo sorto quasi ex novo, ha subito a lungo una reazione di estraneità se non di rigetto. I porti, in mancanza di politiche adeguate, corrono il rischio di imporre servitù alle città che li ospitano in cambio di benefici che vanno al sistema paese. Bisogna anche tenere presente che a Genova porto vuol dire pure attività industriale (riparazioni navali, cantieri, refitting della nautica). E produce introiti fiscali. Che però vanno a Roma. Negli anni si sono succeduti governi nazionali di destra e di sinistra, sono stati presi provvedimenti per accrescere la possibilità (limitata) di autofinanziamento delle Autorità portuali ma tuttora ai territori che ospitano le strutture portuali poco rimane del valore fiscale generato.
Il lavoro di Conti, già denso di dati, è focalizzato sul territorio ligure ma se consideriamo, per esempio, Amburgo , non solo risulta che il suo porto è fonte di occupazione, reddito e crescita per l’intera regione, tanto che la Camera di commercio di Amburgo e l’Associazione degli imprenditori del Porto di Amburgo hanno chiesto un maggiore impegno da parte della città e del governo federale nei confronti dello scalo ma vediamo che questo ogni anno genera circa 1,5 miliardi di euro di entrate fiscali per la regione metropolitana. Il governo federale, a sua volta, ricava fino a 30 miliardi di euro all’anno dalle entrate doganali del solo porto (Dpa-AFX4, marzo 2024).
Ma torniamo al fattore dimensione. Come spingere le imprese liguri a crescere? Da un lato – spiega Conti – il miglioramento dell’efficienza dell’azione pubblica potrebbe favorire un aumento dimensionale delle imprese, dall’altro le politiche industriali regionali dovrebbero essere orientate a favorire la crescita dimensionale delle imprese, anche evitando che imprese poco produttive, spesso molto piccole e vecchie, rimangano sul mercato. Perché possono crescere solo le imprese innovative. Quindi occorre promuovere l’innovazione, potenziare l’infrastruttura tecnologica e promuovere l’adozione di tecnologie digitali avanzate in ambito produttivo, investire nell’istruzione e nella formazione professionale, sostenere i settori produttivi competitivi, il che comporta sostenere i settori in cui la Liguria mostra un vantaggio comparato, favorendo la crescita di settori ad alta produttività come l’industria manifatturiera e i servizi hi tech.
Fermare il declino per Conti è possibile ma non scontato. Occorre “un reindirizzamento delle politiche industriali e della formazione regionale. Tuttavia, e qui entra in gioco il lato politico della questione, la necessità dei cambiamenti si scontrerà, come già si è scontrata in passato, con i gruppi sociali che, in Liguria, beneficiano dello status quo, oltre che con la concentrazione nel brevissimo periodo che da anni sta ormai caratterizzando gran parte della politica italiana. Al contrario, i principali beneficiari delle riforme, i giovani, in gran parte, come è logico, hanno difficoltà a identificare i vantaggi di politiche che oltre a generare effetti positivi relativamente dispersi tra una molteplicità di soggetti, tendono anche a materializzarsi solo nel medio termine”.
Grazie all’applicazione polisensoriale di Vesepia, il lettore potrà accedere agli aggiornamenti dei dati e degli studi che verranno caricati dall’autore, rendendo questo libro uno strumento di ricerca permanente.