“Dolore e furore” di Sergio Luzzatto (Einaudi) ricostruisce la storia delle Brigate rosse adottando come filo conduttore un tema biografico, quello della vita di Riccardo Dura, uno dei terroristi morti nello scontro a fuoco con i carabinieri il 28 marzo 1980 in via Fracchia a Genova, inserito nel quadro sociale, culturale e politico di Genova. Della Genova tra gli anni Cinquanta e Settanta.
Una ricostruzione che non svela retroscena misteriosi, ma illumina fatti avvenuti sotto gli occhi di tutti e rimasti in ombra. Merito non da poco, poiché ancora oggi c’è chi vede nei terroristi rossi delle marionette nelle mani di non si sa chi. Luzzatto scrive che “il terrorismo rosso era stato, in Italia, il prodotto diretto di una sparuta avanguardia marxista-leninista; ma era stato anche il prodotto indiretto di una più diffusa cultura variamente antiistituzionale, terzomondista, operaista, nichilista, oltranzista che, a partire dagli anni Sessanta aveva svillaneggiato le politiche riformatrici del centrosinistra, aveva irriso le garanzie giuridiche dello stato di diritto, aveva venerato l’idolo della violenza rivoluzionaria come levatrice di progresso” (pag. XLII).
L’indagine sulla realtà genovese genovese porta lo storico a riconoscere la responsabilità di quelli che, giustamente, sono stati definiti “cattivi maestri”. Ce ne sono stati in tutta Italia, senza necessariamente avere preso parte alla lotta armata. Anzi, i più non l’hanno fatto, la figura dell’intellettuale estremista, parolaio e codardo è diffusissima. “Armiamoci e partite”, la frase diffusa da Lorenzo Stecchetti nel 1895 a proposito delle guerre in Africa, è sempre attuale nel nostro paese. A Genova, però, alcuni cattivi maestri non si sono limitati alle dottrine, hanno cercato di metterle in pratica: ai vertici delle Br sono arrivati due professori universitari, i cognati Enrico Fenzi e Giovanni Senzani, e un terzo professore dell’università, Gianfranco Faina, nelle Br è transitato per poi costituire una sua formazione armata.
La scelta della biografia di Riccardo Dura come filo conduttore permette a Luzzatto di rappresentarci con chiarezza e con passione la realtà dell’Italia del dopo guerra, un paese arretrato, che entrava in una fase industriale e avrebbe dato vita al boom economico con la cultura di una società agricola patriarcale e istituzioni arretrate. E determina il punto di osservazione dell’autore e la rappresentazione della realtà osservata. Dura, figlio di immigrati, adolescente in difficoltà, abbandonato dal padre e in conflitto con la madre possessiva e violenta (illuminante la lettera alla madre del 6 ottobre 1970 inviata da Olbia dove il giovane prestava il servizio militare, pag.153-159) è stato internato due volte, per brevi periodi, nel manicomio di Quarto, e ha trascorso gli anni dell’adolescenza nella Garaventa, la nave correzionale per minorenni. Manca la documentazione sui suoi anni di lavoratore marittimo. E così la ricostruzione della genesi delle Br genovesi pone l’accento più che sulla tematica della lotta di classe e sui rapporti tra brigatisti e operai – Dura è l’assassino dell’operaio Guido Rossa – su quella delle istituzioni totali, dei riformatori, delle carceri. Emarginati e intellettuali sono i protagonisti di questa storia.
Una ricostruzione che non convince uno dei massimi protagonisti della lotta armata, Mario Moretti. Il brigatista a una richiesta di informazioni da parte dello storico sulla vita di Dura nelle Br ha negato ogni disponibilità al dialogo. “Quanto gli avevo fatto sapere per presentare me stesso e la mia ipotesi di lavoro – si legge in Dolore e furore – non l’aveva convinto per nulla”. Luzzatto cita un passo della lettera di risposta da parte di Moretti: “Il punto è che non mi riesce di considerare ‘marginale’ un tipo che ha passato la sua vita da adulto – purtroppo non lunghissima – guadagnandosi la pagnotta navigando per mezzo mondo a bordo di navi mercantili. Un marittimo che conosceva come pochi la storia dei portuali di Genova (…) Era nei caruggi, in quell’ambiente di lavoro e di lotta, che aveva vissuto e aveva capito da che parte stare e come starci. Anche se può capitare che, insieme a una nonna siciliana meravigliosa, ti tocchi in sorte un madre un po’ balenga: ma questo non fa di te un marginale” (pag. 602).
Moretti critica l’ipotesi di fondo del libro, altre osservazioni si potrebbero formulare a proposito di Dolore e furore senza contestarne la validità: si tratta di un libro bello e tale da farci capire meglio un pezzo della nostra storia.
Luzzatto chiarisce nel passo che abbiamo citato sopra che il terrorismo è stato il prodotto indiretto di una più diffusa cultura (ecc…). Forse sarebbe stato opportuno dedicare più spazio al mito della “Resistenza tradita”. In proposito si possono leggere per esempio le memorie di Prospero Gallinari “Un contadino nella metropoli”, pag. 13, Bompiani, 2014) e le dichiarazioni di Piero Bortolazzi in “Gli irriducibili-Storie di brigatisti mai pentiti di Pino Casamassima (Laterza 2012, pag. 93). E si possono ricordare i cortei in cui non i terroristi ma gli estremisti di sinistra si definivano “la nuova Resistenza”. Era diffuso lo slogan “Fascisti, padroni, non avete più domani, la nuova Resistenza ha il mitra nelle mani”. Qualcuno il mitra poi lo ha imbracciato davvero. Anche la buffonata delle “sedicenti Brigate rosse”, cioè il fatto che per anni buona parte della sinistra, dei sindacati, della stampa, degli intellettuali – non mancano personaggi famosi, da Giorgio Bocca a Sandro Pertini – si è rifiutata di riconoscere la matrice culturale politica dell’eversione di sinistra, ha avuto un ruolo nella crescita della violenza e dei movimenti eversivi e merita ampio spazio nei libri di storia. Luzzatto non tralascia la questione che però, a nostro avviso, avrebbe potuto avere maggiore evidenza. Trattando di quegli anni non bisognerebbe mai dimenticare la vicenda del prefetto di Milano Libero Mazza che il 22 dicembre 1970 inviò al ministero dell’Interno un rapporto in cui si illustrava la violenza di piazza, di destra e di sinistra, e fu messo in croce dall’Unità e da una parte della stampa per avere denunciato l’esistenza di organizzazioni paramilitari di sinistra. Che agivano sotto gli occhi di tutti. Intervistato dal Corriere della Sera nell’ottobre 1985, Mazza dichiarò a proposito del terrorismo: “La sua matrice è in quegli anni. All’inizio non solo non è stato contrastato ma addirittura favorito. E quando è stato valutato nei suoi reali pericoli era troppo tardi”.