Un’attesa infinita, 15 anni per varare il Testo unico su terre e rocce da scavo (a breve pubblicato in Gazzetta Ufficiale), la normativa che dovrebbe semplificare le procedure, ma soprattutto dovrebbe contribuire a ridurre la quantità di rifiuti, classificando il materiale “scavato” come sottoprodotto e quindi dando il via libera alla sua riutilizzazione. I regolamenti precedenti però non erano riusciti a essere pienamente applicabili, e sono risultati poco fruibili dagli operatori.
Il testo ha alcuni pregi, ma non risolve tutte le problematiche, lasciando aperta, ad esempio, la questione delle rocce amiantifere. Parola di Arpal.
Occorre una premessa: «Il vecchio regolamento – spiega Emanuele Scotti, geologo di Arpal – il decreto ministeriale 161 del 2012, che ancora è formalmente vigente, prevede per l’amianto la stessa modalità di analisi delle bonifiche da siti contaminati: in pratica è come se si diluisse la concentrazione delle sostanze che sono costitutive della roccia».
Arpal aveva più volte sollevato la questione e anche l’Istituto Superiore di Sanità, già all’uscita del testo unico ambientale, aveva compreso il “dettaglio”; nonostante lettere e tavoli di lavoro, alla fine tutto era rimasto invariato. Il nuovo testo va nella direzione corretta; definisce un limite analitico di utilizzo nella concentrazione totale, pari a 1000 mg/kg (inizialmente si parlava di 100 mg/kg, un limite molto più restrittivo), ma si può sempre migliorare. «La concentrazione è un elemento fondamentale da conoscere, non l’unico. La modalità analitica indicata dalla norma adesso è apprezzabile. Ma bisognerebbe considerare anche altri fattori che concorrono alla dispersione delle fibre nell’ambiente», puntualizza Scotti.
Il materiale è “pericoloso” nel momento in cui si sta abbattendo l’ammasso roccioso o durante la sua movimentazione. Ancora Scotti: «il materiale di per sé, se non abbattuto o movimentato non costituisce un rischio, tant’è che le patologie amianto-correlate sono notoriamente connesse alla produzione, o all’utilizzo, e non alla presenza naturale. È pertanto necessario concentrare l’attenzione nella fase di scavo e movimentazione, sui dispositivi di sicurezza e su quanto necessario per monitorare i lavori».
Oggi la tecnologia consente di gestire le rocce di amianto in un cantiere in totale sicurezza, anche in presenza di concentrazioni importanti nei materiali. Occorre anche sfatare molti luoghi comuni sull’amianto, che spesso condizionano l’approccio tecnico: «L’opinione pubblica associa l’amianto di origine antropica, quindi l’eternit e l’uso che per decenni se n’è fatto, a quello naturale. In realtà sono due cose completamente diverse».
L’amianto naturale è contenuto solo nelle cosiddette rocce verdi, altrove è impossibile trovarlo. Purtroppo, tra le sostanze da cercare nel “set analitico minimale” delle terre e rocce da scavo, è stata inserita la generica voce amianto, senza distinzione tra naturale o antropico.
Infine, la questione del riutilizzo delle rocce amiantifere in sito: è possibile, purché venga definito il cosiddetto fondo naturale: «Una procedura complessa – evidenzia Scotti – che serve per trovare la concentrazione media di una data sostanza nella roccia e nel territorio. Una procedura applicabile a tutti i componenti naturali come nichel o cromo. Non all’amianto, che per sua stessa natura è distribuito nella massa rocciosa in modo disomogeneo, in vene e fratture. È virtualmente impossibile definire un valore medio». Come dire che, a termini di legge, il materiale roccioso con amianto naturale sarà sempre un rifiuto se non si introduce un diverso approccio integrato.