Una tempesta tropicale che nell’arco di un’ora ha scaricato in alcune zone più acqua rispetto al 1970. È la Noaa (National oceanic and atmospheric administration) del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti d’America a definire l’evento atmosferico che provocato l’ultima alluvione a Genova. Le precipitazioni che il 4 novembre che si sono accanite sul capoluogo e provincia (depressione Quinn) sono arrivate dopo un’altra perturbazione devastante per il territorio ligure a meno di 100 chilometri di distanza e soltanto 10 giorni prima: il 25 ottobre la forte pioggia ha devastato la provincia della Spezia in val di Vara, val di Magra, Monterosso e Vernazza. I dati dei pluviometri non mentono: nell’arco delle 24 ore la stazione di Bolzaneto aveva misurato nel 1970 una cumulata di 948 mm (massimo italiano secondo Nimbus il sito ufficiale della società italiana di meteorologia), 435 mm quella di Pontecarrega nel 1992, 411 mm il monte Gazzo a Sestri Ponente il 4 ottobre 2010, 466 mm il pluviometro di Vicomorasso (a Sant’Olcese) e 550 mm quello di Quezzi lo scorso 4 novembre. La stazione di Brugnato il 25 ottobre ha segnato 538 mm. Analizzando il dato su un’ora si scopre che Vicomorasso ha registrato il triste primato di 175 mm, contro i 143 di Brugnato, i 124 di Sestri Ponente e i 120 del 1970.
Giuliano Antonielli, geologo ligure e consigliere dell’ordine nazionale, all’indomani degli eventi che hanno colpito le Cinque Terre e la Lunigiana, non sembrava stupito di quanto era successo: «Non si può più parlare di precipitazioni inusuali dopo quanto accaduto alla Spezia nel 2009 e a Sestri Ponente e Varazze nel 2010.
Bisogna capire che ogni anno ci dobbiamo aspettare calamità di questa portata e metterci nella condizione di poterle affrontare. Sull’evento meteorologico che ha colpito la Liguria, alla Spezia prima e a Genova poi, Fausto Guzzetti, presidente dell’Irpi-Cne, Istituto di ricerca e protezione idrogeologica del Consiglio nazionale delle ricerche puntualizza: «Non è stato eccezionale: negli ultimi 50 anni se ne sono verificati molti della stessa portata». Tra il 1960 e il 2010, in media, ogni due anni si è registrato almeno un evento di frana o di inondazione che ha causato vittime tra morti, feriti e dispersi. In alcuni casi, si sono verificati più eventi a distanza di pochi mesi. Negli ultimi 51 anni, escludendo quindi il 2011, ci sono stati almeno 65 eventi che hanno causato sfollati o senzatetto. Sono circa 150 i ricercatori del Cnr impegnati, in sei centri, nella ricerca per la protezione idrogeologica. Dal quartier generale di Perugia, rilevano dati ed elaborano studi per la prevenzione sui rischi naturali di frane e inondazioni. Consulenti del dipartimento nazionale della Protezione civile, hanno ricevuto l’incarico dalle amministrazioni regionali di Piemonte, Veneto, Umbria e Puglia per realizzare ricerche e studi. «Purtroppo è davvero poco quello che poi viene realmente recepito e tradotto in azioni sul territorio», commenta Guzzetti.
Eventi ordinari

L’Irpi può contare su una banca dati che risale fino a 2 mila anni fa. «Sull’ultimo cinquantennio abbiamo rilevazioni più certe», spiega Guzzetti. Secondo l’Irpi i Comuni liguri interessati da frane e inondazioni con danni alla popolazione sono 39 (il 6% del totale), alcuni dei quali colpiti più volte. I più esposti risultano i Comuni di montagna e di collina litoranea. Genova è quello che storicamente ha subito il maggior numero di eventi (5 frane e 6 inondazioni) e di vittime (78, di cui 31 causate da movimenti franosi e 47 da eventi di inondazione). Fra il 2000 e il 2010, la Liguria è stata interessata da almeno sette eventi di frana o di inondazioni gravi (2000, 2002, 2008, 2009, 2010, vedi Liguria Business Journal n. 11/2010). L’evento del 2000 è stato forse il più grave, causando numerosi movimenti franosi e inondazioni nelle province di Imperia e Savona, per un totale 7 vittime. «È la combinazione tra evento violento e gli “esposti” vulnerabili, cioè oggetti e persone, a determinare l’esito drammatico del fenomeno atmosferico». In Liguria, il reticolo idrografico è particolarmente intricato. «Già nel 1950 – spiega Guzzetti – un ingegnere idraulico poteva sapere che esistono i fiumi effimeri. Ogni rivo, anche se porta acqua un solo giorno all’anno, non è detto che possa ricostituirsi all’improvviso e pertanto è sconsigliato costruirci sopra». Guardando il piano di bacino di Monterosso si scopre che il rio che ha causato i maggiori problemi ha quasi 30 affluenti, probabilmente piccoli canali insignificanti per anni, ma che diventano portatori di grandi quantità d’acqua con precipitazioni intense. Edilizia selvaggia, un’urbanistica che ha ignorato le carte idrografiche del territorio i principali accusati. Ma quanto hanno inciso i mutamenti climatici? «E` dimostrato scientificamente che, in futuro, le piogge saranno quantitativamente uguali se non inferiori rispetto al passato, ma si concentreranno in pochi periodi. Ma sarà un processo lento e che è già iniziato da anni. Nel 1970 erano caduti su Genova tra i 550 e i 600 millimetri di pioggia in nove ore, nel 1996 sulle Apuane 500 in 22 ore. I 500 millimetri caduti su Genova, in sei ore, non sono una novità».
Si possono evitare danni e vittime?
Ma la pulizia degli alvei dei torrenti avrebbe evitato le sei vittime e molti danni? «Su un’idrografia come quella di Genova sarebbe servita a poco – afferma Guzzetti – oltre alla manutenzione degli alvei, sarebbe necessaria una revisione urbanistica della città». Renzo Rosso, genovese, docente di Costruzioni idrauliche, marittime e idrologia al Politecnico di Milano ed esperto dei fenomeni alluvionali rapidi, punta il dito contro l’urbanizzazione del Bisagno che dal 1805 a oggi è passata dal 2 al 15% della propria superficie: «La pulizia dei fiumi è necessaria, ma deve essere accompagnata dalla realizzazione di opere strutturali. Oggi la portata del Bisagno è di 700 metri cubi al secondo. Prima degli interventi di rifacimento era di 500. Al termine dei lavori che da anni si stanno svolgendo nella zona della foce, arriverà a 850 anche se il progetto prevederebbe una portata di 1300». Tra il 1997 e il 1998 Rosso ha collaborato alla stesura del Piano di bacino del Bisagno. «La realizzazione dello scolmatore del Bisagno avrebbe limitato ma non evitato i danni e probabilmente sarebbe andato in crisi perché, cosiì com’era stato progettato, non teneva conto della quantità d’acqua caduta il 4 novembre». È questo il grosso problema di una città come Genova, ma anche di tutta la Liguria in generale: i torrenti sono talmente corti che l’onda di piena non è prevedibile come per esempio accade per i fiumi (i modelli matematici consentono di sapere a che ora la piena del Po arriva nelle città), inoltre le aree interessate dalla piena di ritorno cinquantennale (un periodo davvero breve) sono molto urbanizzate. Rosso non si stupisce di quanto accaduto nello spezzino ed elenca gli eventi franosi che già nel 1952 e nel 1968 si sono verificati. «I terreni con terrazzamenti con muretti a secco reggono fino a una certa soglia, dopo di che franano. A Cetara, sulla costa amalfitana, molto simile per conformazione alle Cinque Terre, nel 1920 ci sono stati 120 morti».
I piani di bacino, un punto di partenza

I piani di bacino sono lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo che servono da punto di partenza scientifico per le azioni di conservazione, difesa e valorizzazione del suolo e la corretta utilizzazione delle acque sulla base delle caratteristiche fisiche e ambientali del territorio interessato. In caso di assenza di autorità di bacino (in Liguria esiste solo per il fiume Magra), è la Provincia a occuparsene. Per esempio quella di Genova ha pubblicato i piani di bacino non solo del Bisagno e dei suoi affluenti, ma anche dei principali torrenti da Cogoleto a Moneglia. Sui siti web delle Province di Imperia, Savona e La Spezia Esaminando il piano di bacino del Bisagno, composto da centinaia di pagine, in gran parte molto tecniche, si può capire quali sono le criticità e soprattutto quali sono le aree inondabili a seconda del tempo di ritorno della piena, ossia l’intervallo medio, espresso in numero di anni, con cui un certo tipo di piena si verifica. Nel Bisagno lo studio evidenzia come le criticità idrauliche siano proprio nel tratto di confluenza del Fereggiano (l’affluente che ha creato più problemi il 4 novembre, provocando le 6 vittime con l’esondazione a monte) proprio perché la copertura che va da Brignole alla foce non era in grado di smaltire non solo la piena duecentennale (1300 m3 al secondo), ma neanche quella ventennale o cinquantennale. L’effetto è una sorta di “rigurgito” a monte che si ripercuote proprio all’imbocco con il Fereggiano ed è amplificato da altri ostacoli come i ponti e altre strutture che interferiscono con l’alveo. Va da sé che la stessa cosa succede (con portate naturalmente diverse) anche per gli altri rii: il Fereggiano, che è anch’esso tombinato nella parte finale, se non riesce a smaltire l’acqua alla foce, cresce sino a “esplodere” più a monte. Nel piano di bacino del Bisagno venivano indicate le criticità del Fereggiano da superare come la prosecuzione della copertura a valle di largo Merlo, nel tratto compreso fra largo Merlo e via Fereggiano, però solo a seguito della realizzazione dello scolmatore, anche con la finalità di completare la messa in sicurezza del tratto terminale del rio Fereggiano che, anche a seguito dell’esecuzione dello scolmatore, risulterebbe privo dei franchi idraulici necessari. Grazie ai modelli matematici e allo studio del territorio, il piano di bacino stabilisce anche le aree inondabili a seconda che si tratti di una piena con ritorno cinquantennale (di solito indicata in rosso), duecentennale (in giallo) e cinquecentennale (in verde). Nel caso di Monterosso, le cui due strade principali di collegamento con l’aurelia che arrivano sino al mare sorgono su due rii tombinati, sono state allagate anche strade della zona verde. Le piene cinquecentennali tuttavia possono essere provocate – come evidenziano alcuni studi – da “tappi” che cedono improvvisamente, non solo a causa di precipitazioni molto intense. Il piano di bacino permette anche di capire quali sono le zone di suscettibilità al dissesto dei versanti: nel caso di Vernazza l’area che poi e` effettivamente franata era nella zona marrone e rossa, ossia suscettibilità alta e molto alta. Nel documento relativo al Bisagno, datato 2001, le aree potenzialmente inondabili per eventi di piena, nel tratto che va dalla stazione ferroviaria di Brignole alla Foce, nella sponda sinistra del Bisagno sono comprese tra via Casaregis, piazza Palermo, via Montesuello, piazza Alimonda, mentre nella sponda destra raggiungono viale Brigate Partigiane, via Diaz, via Brigata Liguria, via Fiume, interessando inoltre parte di via XX Settembre e di piazza Colombo.
Nel tratto a monte della linea ferroviaria le aree a rischio idraulico raggiungono piazza Martinez, superano corso Sardegna fino a interessare piazza Ferraris e via Tortosa; sempre in sponda sinistra risulta critica via Fereggiano. È sempre la Provincia a segnalare l’anomalia genovese: “il fatto che una zona urbana, sede di importanti insediamenti residenziali, commerciali e di servizio, sia soggetta a inondazioni con frequenza poco più che ventennale rappresenta, sia a livello italiano che europeo, un caso limite di vulnerabilità alluvionale”.
La prevenzione
Quando venne steso il piano di bacino del Bisagno, le stime dei danni provocati dalle esondazioni dal 1945 al 1996 era di 225 miliardi di lire. A questa cifra va aggiunta quella delle inondazioni successive che ammonta a centinaia di milioni di euro solo per il Bisagno. Sulla bilancia diventa un peso notevole rispetto a quello che si può fare con le opere di prevenzione. Giovanni Scottoni, presidente dell’ordine dei geologi liguri, dichiara: «I piani di bacino sono un ottimo punto di partenza, ma devono essere rivisti e aggiornati. La prevenzione inizia dalla conoscenza del territorio. Inoltre molte opere previste nei piani non sono mai state realizzate, per esempio la vasca di decantazione nel torrente Chiaravagna a Sestri Ponente». In Liguria sono 470 i chilometri a elevato rischio idrogeologico. «Molti Comuni non hanno neppure un piano di emergenza o di protezione civile e la Liguria non ha un servizio geologico, che invece è presente per esempio in Piemonte e solo i Comuni di Genova e Sanremo hanno un geologo al loro servizio».
La Provincia di Genova ha pubblicato sul proprio sito il 19 ottobre le modifiche ai piani di bacino di vari ambiti territoriali anche alla luce del regolamento regionale n.3/2011.
La normativa prevede che la portata di piena da considerare per la progettazione delle opere strutturali e` quella con tempo di ritorno duecentennale (non c’è sicurezza totale perché la portata può essere superiore nel malaugurato caso di tempi di ritorno cinquecentennali) a meno che non rappresentino una fase realizzativa intermedia o se associate a interventi che migliorino il deflusso delle piene, riducano significativamente il rischio di inondazione, e non pregiudichino una soluzione definitiva.
Le fasce di inedificabilità lungo i corsi d’acqua sono state modificate dal regolamento regionale n. 3/2011 “Disposizioni in materia di tutela delle aree di pertinenza dei corsi d’acqua”: 40 metri per i corsi d’acqua del reticolo significativo definiti come principali; 20 metri per i corsi d’acqua del reticolo significativo definiti come secondari; 10 metri per i corsi d’acqua del reticolo significativo definiti come minori. In questa fascia di rispetto la Provincia può comunque autorizzare interventi urbanistico-edilizi su base di studi idraulici (cinque metri per i corsi d’acqua con bacino superiore a un chilometro quadrato, tre metri per quelli con bacino inferiore). Nella zona rossa, quella che può essere toccata da una possibile esondazione, non si può costruire. E` la Provincia tramite gli aggiornamenti al piano di bacino, a definire le aree a seconda della pericolosità geologica. Antonielli punta il dito anche contro il fenomeno dell’abbandono dei boschi e delle campagne: «Bisogna evitare l’errore di vedere la prevenzione come un costo, in realtà è beneficio perché il risparmio sul post emergenza sarebbe enorme. Lo aveva già capito Roosevelt: dopo la crisi del 1929, il New Deal era ripartito grazie anche al rimboschimento, dando lavoro a 20 mila disoccupati» Per “curare” il territorio italiano che appare sempre piu` come un paziente ammalato, Legambiente fa una stima degli interventi necessari intorno ai 40 milioni di euro.
L’anno scorso Liguria Business Journal pubblicava i dati delle frane sul territorio ligure (n.11/2010): 800 quelle di categoria R4 (rischio molto elevato per l’uomo e i suoi beni). 1803 quelle attive (superficie complessiva 55,40 kmq), le frane in stato di quiete 2571 (119,53 kmq), quelle stabilizzate 918 (80,03 kmq) e quelle relitte, ossia inattive 317 (32,10 kmq). In particolare nella sola provincia di Genova ci sono 224 R4 (una ogni 5 kmq) e 1.494 R3 (1,35 ogni kmq). Nei 772 kmq di territorio provinciale genovese in ambito padano, invece, vi sono 875 frane classificate attive e 821 quiescenti. Tuttavia ogni anno le frane si modificano e cambiano pericolosità, come quelle modificate recentemente con delibera da parte dell’autorità di bacino del Magra in zona Brugnato-Borghetto Vara (ampliamento della zona di pericolosità geomorfologica molto elevata Pg4 dopo un dissesto avvenuto nel novembre 2010, di un’area a pericolosità geomorfologica elevata Pg3 e di un’area a rischio geomorfologico elevato Rg3 nella località Bosco di Bagni lungo la strada provinciale numero 7, quella interrotta dalla frana il 25 ottobre). Il geologo Renzo Castello del dipartimento dell’Ambiente della Regione Liguria dichiarava che occorrerebbero un paio di miliardi per sistemare il rischio idrogeologico nella nostra regione.
Cifra utopistica alla luce del budget disponibile di circa 6 milioni per gli studi e per gli interventi sul territorio, su un totale di 30 milioni (il 2,5% dei 900 statali visto che la ripartizione è in base alla superficie della regione).
Gianfranco Saffioti vicepresidente di Limet, associazione ligure di meteorologia (la cui stazione meteo amatoriale a Quezzi ha rilevato un massimo di 556 mm nelle 24 ore, che risulterebbe il dato maggiore della storia nel centro di Genova), richiama i cittadini a un maggiore senso di responsabilità:«La protezione civile agisce dopo evento calamitoso, sono i cittadini che devono fare l’autoprotezione. I Comuni hanno i dati sul rischio idrogeologico. Noi insegniamo ai ragazzi come si riconosce un evento calamitoso e come ci si comporta prima e durante». «La decisione di Michael Bloomberg, sindaco di New York, di chiudere la città in previsione dell’uragano non è stato uno scherzo – dice Antonielli – da anni parliamo di opere di prevenzione ma la prevenzione parte a monte dalla gestione di boschi e rivi, dallo studio delle caratteristiche morfologiche dei Paesi sulla costa, dove ci sono rii corti e in grande pendenza». A Brugnato una delle zone più colpite, dovrebbe sorgere un grosso parco commerciale (vedi Liguria Business Journal n. 10/2011): «Ecco un esempio – dice Antonielli – dove bisogna intervenire: quando si fanno i piani urbanistici. Con i miliardi che si spendono sui post calamita`, si potrebbe intervenire sul “pre”. Ma non è un compito della protezione civile. Riguarda il governo del territorio, i piani di bacino».