Robin Lane Fox è uno dei piú importanti classicisti al mondo, professore emerito al New College di Oxford, autore di “Alessandro Magno” (pubblicato da Einaudi, ultima edizione 2008), libro dal quale Oliver Stone ha tratto “Alexander”, e di numerosi altri libri dedicati all’antichità, “Pagani e cristiani” (Laterza 2006), “Il mondo classico. Storia epica di Grecia e Roma” (Einaudi 2008), “Eroi viaggiatori” (Einaudi 2010), “Verità e invenzione nella Bibbia” (Mondadori 2018).
In “Omero e l’Iliade” Fox riapre la cosiddetta, secolare, “questione omerica”: l’Iliade è opera di un solo individuo, Omero, o è l’insieme di singole composizioni, elaborate nei secoli e poi riunite in un poema? E sostiene, con passione, che Omero esistette, visse probabilmente nell’isola greca di Chio, fu un cantore illetterato, che imparò a comporre in versi fin da ragazzo e, raccogliendo formule ed esperieze precedenti, iniziò tra il 750 e il 740 a. C: a declamare l’Iliade, a volte soltanto dei brani, nelle festività più lunghe il poema per intero ma ogni volta in versioni in parte diverse, fino a dettarne una che venne trascritta da uno dei pochi, primi scribi (l’alfabeto greco era all’inizio della sua diffusione) di allora ed è quella arrrivata fino a noi, tranne qualche aggiunta posteriore (il catalogo delle navi dei greci, l’avventura notturna di Ulisse e Diomede e qualche verso sparso). La storia è ambientata in un mondo lontano da quello in cui vivevano i suoi ascoltatori, lo dimostrano i materiali e gli oggetti (armi di bronzo e carri utilizzati per il trasporto dei guerrieri e non per il combattimento) e il contesto sociale e i costumi sono sono di due generazioni precedenti. La città assediata e distrutta dai greci cantata nel poema non è esistita: la guerra di Troia non ci fu.
Per arrivare a queste conclusioni Fox si basa su considerazioni interne al poema, frutto di uno studio quarantennale, su acquisizioni storiche ma anche utilizzando gli studi condotti sul campo nel XIX secolo sulla poesia orale nei Balcani e nelle steppe dell’Asia centrale, dove persisteva la tradizione della poesia orale, recitata e cantata da poeti analfabeti come i loro ascoltatori. Ricerche da cui risulta che non solo i poermi brevi ma anche quelli molto lunghi potevano essere composti oralmente e memorizzati. Nel resto del mondo sono stati poi scoperti poeti orali ancora attivi in Africa occidentale, in Corea, in Sri Lanka, nel Pakistan, in India, nel mondo arabo.
Analogie suggestive e convincenti, alcuni non le considerano prove decisive, comunque il libro di Fox scava in profondità nel poema fino a metterne a nudo la trama sottostante le vicende narrate: ci mostra le caratteristriche degli eroi, la loro etica, la loro psicologia, quelle degli dei, il rapporto tra uomini e dei, e il motivo per cui quest’opera, composta circa 2.800 anni fa, continui a parlarci, a commuoverci e a generare significati.
Illuminante è in particolare l’ultimo capitolo, intitolato “Una spietata intensità emotiva”, espressione tratta dalla prefazione scritta da C. S. Lewis al “Paradiso perduto” di Milton. Spietata intensità emotiva che Fox, scompone in altri elementi.
Il primo è il pathos che “indica le sofferenze descritte nel poema e la tristezza che suscitano nel lettore (…) Gli epiteti ricorrenti presentano il mondo nella luce migliore ma il pathos pervade di tristezza ciò che vi accade momento dopo momento. In questa narrazione è contenuto in parte il segreto della forza dell’Iliade”. Pensiamo all’episodio di Crise che supplica Agamennone, all’incontro tra Ettore e Andromaca, alla supplica di Licaone ad Achille che sta per ucciderlo, al momento in cui Andromaca capisce che Ettore è stato ucciso, alla missione di Priamo che si reca all’accampamento di Ulisse, e ad altri episodi.
“Il pathos – prosegue Fox – si intreccia ripetutamente con il secondo elemento costitutivo dell’intensità emotiva: la compassione. (Una compassione che i protagonisti delll’Iliade provano solo per i i loro compagni, non per i nemici, tranne nell’ultimo libro in cui Achille prova pietà per Priamo e accoglie la sua richiesta. Anche tra gli dei la compassione per gli esseri umani è intrecciata alla partigianeria).
La spietatezza, infine, sta nel fatto che, spiega Fox citando Simone Weil, l’animo umano è subordinato alla forza. E questa subordinazione è rappresentata spesso attraverso l’ironia: gli esseri umani parlano e agiscono senza conoscere, o fraintendendo, il volere degli dei e il destino, che invece gli ascoltatatori e, oggi, i lettori, conoscono. “Il male esiste perché, fin dalla nascita, Zeus lo dà mescolato al bene a ogni individuo. E può scaturire in qualsiasi momento dal risentimento o dall’ira di una o più divinità. Il fatto che i mortali ne ignorino l’oggetto e la causa rende ancora più miserevole la loro vita ma è la conoscenza privilegiata che ne hanno ascoltatori e lettori a rendere l’intensità emotiva dell’Iliade spietata”.
L’ironia dell’inconsapevolezza è spietata. E riguarda anche noi. “I mortali – scrive Fox riferendosi alle parole che Achille rivolge a Priamo – possono cercare di indovinare le intenzioni degli dei e i motivi che intessono la trama delle loro vite ma non possono conoscerli in anticipo. Sì, in effetti, sentiamo che quel modo di vedere il mondo funziona. Anche se non crediamo più negli dei omerici, ci impegniamo, protestiamo e agiamo secondo i nostri piani, ma alla fine dobbiamo arrenderci alla realtà dei fatti. Possiamo ancora esportare questa regola dal mondo immaginario dell’Iliade a quello della nostra esperienza (…) la malattia colpisce a caso un bambino, la morte porta via un amico prima del tempo, un incidente lascia menomata una persona cara. La vita si rifiuta ostinatamente di conformarsi ai nostri desideri”.
Il cuore delll’Iliade non è la guerra, non è la forza, non è l’eroismo, è la condizione umana. Di sempre.