“Nazionalismo” di Eric Hobsbawm, ripubblicato da Rizzoli nel 2023 a cura di Donald Sassoon, è una raccolta di 23 scritti dello storico inglese che vanno dagli anni Sessanta ai Novanta. Svolge quindi il tema del nazionalismo non in maniera sistematica, alcuni concetti ritornano in diversi dei 23 capitoli, mentre altri avrebbero richiesto una trattazione sistematica e consequenziale. Ha però il grande merito di dimostrare l’artificiosità e la nebulosità del nazionalismo. “Se l’esistenza di gruppi diversi di uomini – scrive Hobsbawm – che si distinguono da altri gruppi per una serie di motivazioni, è tanto innegabile quanto antica come la storia, non lo è altrettanto il fatto che essa comporti ciò che nel XIX secolo viene considerata un’”entità nazionale”. E lo è ancora meno il fatto che questi gruppi fossero organizzati in Stati territoriali di stampo ottocentesco, per non parlare poi di Stati che coincidevano con ‘nazioni’” (pag. 64).
Fare coincidere la “nazione”“ con lo Stato comporta delle forzature: “Giuseppe Mazzini, il più eloquente e tipico fautore dell”Europa delle nazionalità, propose nel 1857 una cartina della sua Europa ideale che consisteva in sole undici unioni di questo tipo (…) sebbene a Mazzini sembri essere sfuggito il fatto che un uomo che proponeva di unire la Svizzera alla Savoia, al Tirolo tedesco, alla Carinzia e alla Slovenia non era esattamente nella posizione di criticare, per esempio, l’impero asburgico perché questo violava il principio nazionale” (pag. 67).
L’uniformità nazionale va quindi imposta. “Per quanto potenti fossero i sentimenti e (man mano che le nazioni si trasformavano in Stati, o viceversa), le lealtà nazionali, la ‘nazione’ andava costruita. Da qui l’importanza cruciale delle istituzioni che potevano imporre una uniformità nazionale, il che significava in primo luogo lo Stato, e in particolare l’istruzione pubblica, gli impieghi pubblici e la coscrizione obbligatoria” (pag. 78). E “queste istituzioni erano di importanza vitale perché solo grazie a esse la ‘lingua nazionale’ (…) poteva diventare a tutti gli effetti, almeno per certi scopi, la lingua scritta e parlata del popolo” (pag. 80).
Composto com’è di saggi scritti in diverse occasioni, il libro di Hobsbawm non distingue in modo chiaro i concetti di patriottismo – consapevolezza di fare parte di una comunità che può anche essere una tribù, un villaggio, una vallata, non necessariamente presuppone uno Stato e non esclude altre appartenenze, le identità mentali, come scrive lo stesso Hobsbawm, non essendo come le scarpe che si possono portare solo una alla volta – e nazionalismo, anzi, in certi casi usa i termini corrispondenti come sinonimi. Ma mette bene a fuoco il concetto di nazione e nazionalismo, precisando che il concetto di nazione è storicamente nuovo, comparso verso la fine del XVIII secolo, ed è composto da due presupposti, il primo è che i vincoli di lealtà alla nazione non sono semplicemente superiori a tutti gli altri “ma, per quanto riguarda l’obbligo politico, li sostituiscono. Un uomo non è più definibile da un complesso di lealtà molteplici, forse sovrapponibili e probabilmente separabili, ma prevalentemente da una sola: la sua nazionalità”. Il secondo presupposto è “la convinzione che questa singola collettività del popolo o nazione indipendente e sovrano, abitato preferibilmente da una popolazione omogenea composta solo da membri della sua nazione che parlano un’unica lingua” (pag. 214). Convinzione gravida di pericoli perché “la multietnicità e il plurilinguismo sono inevitabili, se non in linea provvisoria per mezzo di esclusione di massa, assimilazione forzosa, espulsione di massa o genocidio: in breve, tramite coercizione” (pag. 367).