Sono trascorsi oltre tre anni dall’articolo comparso sull’Economist “The Slowbalisation – the steam has gone out of globalisation” e, nonostante nel frattempo siano incorse una pandemia globale e una nuova guerra europea, sembra che le sue previsioni fossero drammaticamente corrette, forse perfino ottimistiche.
L’articolo, pubblicato per la prima volta il 24 gennaio del 2019, vedeva nella politica protezionistica dell’allora presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump come il culmine di un processo di rallentamento di integrazione tra le diverse economie globali, tendenza iniziata già a ridosso della grande crisi finanziaria del 2008-2009. Nel corso del decennio precedente la pandemia, diversi fattori hanno reso il processo di globalizzazione, inteso come processo di internazionalizzazione delle catene logistiche e finanziarie, sempre meno conveniente. Se la discesa dei costi del trasporto, la velocizzazione delle comunicazioni, la caduta delle barriere doganali e la liberalizzazione dei mercati finanziari avevano reso il mondo più interconnesso che mai, già nel 2019 si constatava che quasi tutti questi fattori stavano perdendo di inerzia, o addirittura stavano intraprendendo un trend opposto. Alcuni grandi paesi, come gli Stati Uniti, si sono resi conto che per loro la globalizzazione si traduceva oramai in giganteschi deficit commerciali con l’estero. Il costo dei trasporti ha smesso di decrescere. Le grandi multinazionali hanno realizzato che la delocalizzazione è costosa, e che la frammentazione dei propri processi produttivi in diverse aree del pianeta può rivelarsi una debolezza nel momento in cui il minimo inconveniente di qualsivoglia natura può rischiare di interromperne la catena logistica con effetti catastrofici.
La prima a prendere coscienza di questo cambiamento è stata la Cina, la cui manifattura, nell’ultimo decennio è andata via via sofisticandosi e cercando di rendersi indipendente dall’estero per quanto riguarda la realizzazione di prodotti semilavorati.
La guerra doganale di Trump, tesa a riequilibrare il deficit commerciale degli Stati Uniti verso l’Oriente, ha rappresentato forse la parte più scenografica e coperta mediaticamente di un processo che già covava sotto la cenere da anni.
Quando la pandemia da Covid-19 si è affacciata alla ribalta della storia, questa non ha fatto che confermare i timori di coloro che si pronunciavano da anni a proposito dei rischi dell’avere catene di approvvigionamento globale così estese, specie per quanto riguarda alcuni settori considerati strategici. In questo caso, il settore strategico è stato quello biomedicale.
La successiva crisi politico-militare d’Ucraina, principiata nello scorso febbraio e purtroppo ancora in corso, ci sta ricordando di quanto siamo vulnerabili anche dal punto di vista dell’approvvigionamento alimentare, delle materie prime, e soprattutto energetico. Larghe porzioni della nostra economia si stanno trovando in una situazione di carenza di materie prime e di costi crescenti per i propri fabbisogni energetici. Inoltre, in questi giorni la città di Shangai e il suo porto, il primo al mondo per quantità di merci movimentate nonché porta della Cina verso Occidente (46 milioni di teu movimentate nel 2021), sono strette nuovamente nella morsa del Covid. Quali effetti ci saranno sull’economia globale lo vedremo, ahimè, tra qualche mese.
A rafforzare le tesi dell’Economist, accanto ai fattori già identificati nel 2019, si sono aggiunte le due variabili sanitaria e politica forse destinate, più di tutte le altre, a portare alla fine del modello economico internazionale che dalla caduta dell’Unione Sovietica a oggi ha caratterizzato le nostre esistenze.
Cosa sia lecito aspettarsi dal futuro appare quantomai incerto. La tendenza che appare consolidandosi, anche alla luce delle sopraccitate crisi sanitarie, energetiche e politiche, è quella di una nuova contrazione nelle catene logistiche globali, una “continentalizzazione” delle economie necessaria a renderle più razionali e controllabili. Dopotutto nel 2019, subito dopo aver colpito svariate produzioni cinesi con dazi doganali, Donald Trump si è affrettato a rafforzare la cooperazione economica americana con Messico, Canada e Regno Unito. Ancora più evidente è la tendenza europea a una maggiore integrazione finanziaria (emissione di Bond comunitari in seno al più ampio piano del Pnrr) ed energetica (col supporto anche degli Stati Uniti). Sul versante opposto, la crisi russo-ucraina, sembra possa avere il potenziale per sciogliere definitivamente entro pochi anni tutti i nostri legami commerciali con la Federazione Russa, facendo scivolare Mosca verso una più stretta cooperazione politico-economica con la Cina e resuscitando ai confini dell’Europa una nuova cortina di ferro i cui confini meridionali sono ancora incerti, e di cui l’Europa non sentiva di certo la mancanza.
Se il nuovo mondo sarà meglio di quello vecchio per il momento non è facilmente definibile. È certo comunque che un mondo diviso a blocchi è storicamente un mondo chiuso, diffidente, in cui le crisi politiche più facilmente si tramutano in crisi militari. Una scarsa interconnessione non ci aiuterà a coordinarci con le istanze del cambiamento climatico. Soprattutto, avere economie più chiuse non si tradurrà per noi Paesi occidentali nella resurrezione di una classe operaia, magari sostenuta dalla rilocazione di aziende un tempo operanti all’estero. La tecnologia continuerà a comprimere il costo della manodopera meno qualificata. In questo possiamo stare certi che non vi saranno cambiamenti.