«Il G20 di Venezia ha confermato che ormai la cura del ferro fa bene ai ferrovieri, non al clima, mentre la questione climatica è una priorità della comunità internazionale. L’Unione europea si è battuta per adottare forme di carbon pricing a livello globale in modo da contrastare l’incremento delle emissioni. Ma, al proprio interno, l’Ue è coerente? La risposta breve è: no». È quanto si legge in un paper pubblicato oggi dall’Istituto Bruno Leoni.
Secondo l’istituto l’Ue «anziché affidarsi a un sistema di prezzi del carbonio in cui sono le imprese a trovare gli strumenti e i settori in cui è più vantaggioso tagliare le emissioni, continua a distorcere il mercato attraverso allocazioni arbitrarie di sussidi. Il paradosso è che i sussidi sembrano tanto più generosi, quanto meno sono efficaci».
«Un caso paradigmatico – spiega l’IBL – è quello delle ferrovie: in un paper congiunto dell’Istituto Bruno Leoni e di Bridges Research, pubblicato oggi. Francesco Ramella confronta l’enorme spesa degli Stati membri nella cosiddetta “cura del ferro” coi suoi risultati. Ebbene: i numeri dicono che i denari pubblici assegnati al trasporto ferroviario, più di mille miliardi nei primi tre lustri di questo secolo, hanno avuto risultati modesti: l’obiettivo dello spostamento modale del traffico dalla gomma al ferro, cardine della politica dei trasporti fin dal “Libro Bianco” del 2001, è del tutto fallito».
Ma se gli investimenti nella cura del ferro non servono al clima e non servono neppure a svuotare le strade allora a chi servono? «Fanno anzitutto comodo ai beneficiari diretti: i passeggeri e le merci che beneficiano di infrastrutture pesantemente sussidiate ma soprattutto le maggiori imprese ferroviarie (che, guarda caso, sono quasi tutte controllate dagli Stati) e i loro fornitori».
Questo non significa che «non si debbano più costruire linee ferroviarie (o metropolitane) i cui benefici (che si dovrebbero sempre valutare e confrontare con i costi) non si limitano a quelli di carattere ambientale ma dovrebbe risultare evidente che quella del cambio modale è una pessima politica ambientale».
Per il paper leggi qui