«Da oggi nessuno di voi ha più un nome, una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi in clandestinità. Io sarò il vostro unico punto di riferimento, io vi darò una casa, vi ordinerò dove andare e che cosa fare. Il Paese è terrorizzato dai brigatisti, da oggi sono loro ad avere paura di noi e dello Stato».
È il 28 maggio 1974, nella caserma di via Valfrè di Torino, sede della I Brigata e della Scuola allievi carabinieri, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa così si rivolge ai 31 carabinieri – in gran parte marescialli e brigadieri – che ha scelto per costituire il “Nucleo speciale di polizia giudiziaria”, più conosciuto come “Nucleo speciale antiterrorismo” perché il suo unico scopo era quello di contrasto del fenomeno terroristico, in particolare delle Brigate Rosse.
Dalla Chiesa e le forze dell’ordine, carabinieri e polizia, come è noto, riusciranno a stroncare il terrorismo. In particolare il Nucleo speciale, sciolto nel luglio 1975 e ricostituito con diverso assetto nell’agosto 1978 sotto il comando di dalla Chiesa nominato “Coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta al terrorismo”, all’inizio degli anni Ottanta annienterà Brigate Rosse e Prima Linea. Decisiva sarà la collaborazione del brigatista pentito Patrizio Peci, catturato nel febbraio 1980.
Antonio Brunetti, maresciallo dei carabinieri in pensione, decorato con la Medaglia d’Oro come vittima del terrorismo, è uno di quei 31 uomini che quel 28 maggio 1974 nella caserma di via Valfrè ascoltavano il generale e al termine della riunione entrarono immediatamente in clandestinità. Ha raccontato la sua storia in un libro pubblicato di recente, “I 31 uomini del Generale – Un maresciallo dei Carabinieri con dalla Chiesa contro le Brigate Rosse”, Luni Editrice.
Nato nel 1935 a Tresana, un paesino in collina di fronte alle Alpi Apuane in provincia di Massa Carrara, Brunetti da decenni vive nel Ponente ligure. Liguria Business Journal lo ha intervistato per fare conoscere uno dei protagonisti di una vicenda cruciale nella storia del nostro Paese.
Che cosa ha provato quando si è sentito dire che non avrebbe più avuto un nome, una famiglia, una casa?
«Un tuffo al cuore. Ero sposato, con due bambini piccoli, Daniela e Paolo. Come potevo lasciarli? E che cosa avrei detto a Carla, mia moglie? Ma non mi sono tirato indietro, come non lo hanno fatto gli altri trenta. Gli italiani erano profondamente turbati dal terrorismo e dalla violenza politica di strada. La stessa caserma in cui il generale ci aveva convocati doveva essere strettamente sorvegliata. Via Valfrè già da tre giorni era parzialmente bloccata, in modo da deviare il traffico in via Cernaia senza fare passare veicoli davanti alla porta centrale, e una nostra auto era presente 24 ore su 24. I terroristi a Torino avevano già incendiato tre caserme e ferito delle persone alle gambe a colpi di pistola. Pochi giorni prima le BR avevano liberato il sostituto procuratore di Genova Mario Sossi dopo averlo tenuto prigioniero per un mese. Dei servitori dello Stato, come noi eravamo orgogliosi di essere, non potevano dire no al generale».
Quali erano i sacrifici maggiori che un servizio del genere comportava?
«Prima di tutto l’assenza da casa, la mancanza dei propri cari. Proprio nei primi giorni di attività del Nucleo ho fatto il possibile per partecipare alla prima comunione di mia figlia Daniela. La mia bambina ci teneva e io anche. Sono arrivato in chiesa alla fine della funzione, poi siamo andati in un ristorante di Bordighera per il pranzo. Fuori, a bordo di un’Alfa Romeo, mi aspettava un brigadiere, le apparecchiature sintonizzate con il comando dell’Arma di Imperia per non perdere i contatti con il Nucleo. Avevo appena assaggiato uno degli antipasti quando il brigadiere mi ha avvertito: «Ordine di partenza immediata, destinazione Verona». Per tutta l’estate ho visto i miei solo per poche ore, una volta li ho raggiunti in spiaggia».
«Forse – prosegue Brunetti – ancora più mi pesava mentire ai miei cari. Mentivo in pratica con tutti, al di fuori del Nucleo, e non ero abituato a farlo, io per natura credo di essere sincero, aperto. Mi sentivo a disagio. Ma non poter dire la verità nemmeno alla mia famiglia era particolarmente doloroso. Raccontavo che seguivo dei corsi di aggiornamento e cose del genere».
I terroristi non vi hanno mai scoperto?
«Mai. Ci sono andati vicini qualche volta, ma non ci hanno mai sorpreso. Abbiamo passato anni anche a poche centinaia di metri gli uni dagli altri, loro sapevano che noi c’eravamo ma non sono riusciti a colpirci. Mentre noi li abbiamo spesso individuati, pedinati e catturati. In poche settimane si è avverato quello che ci aveva detto il generale: «D’ora in poi saranno loro ad avere paura di noi e dello Stato». I brigatisti erano abituati a colpire di sorpresa le loro vittime. Si sono trovati ad affrontare avversari senza volto, che potevano essere chiunque, l’avventore di un bar, il cliente di un negozio, un passante… La nostra clandestinità, del resto, era assoluta. Non firmavamo neanche i verbali, non svolgevamo attività burocratiche di polizia giudiziaria perché saremmo dovuti andare a deporre davanti al magistrato e se ci avessero visto in aula sarebbe stata la fine della nostra clandestinità. I rapporti e gli atti di polizia giudiziaria venivano redatti dal reparto investigativo al quale ci appoggiavamo. Noi riferivamo soltanto al colonnello Giuseppe Franciosa, nostro comandante operativo, e al generale. Loro due tenevano i rapporti con le altre strutture dello Stato. Anche le altre forze di polizia non sapevano nulla di noi. Si viveva in appartamenti anonimi, e quando bisognava frequentare la caserma di via Valfrè o un’altra struttura dello Stato lasciavamo l’automobile lontana dall’edificio ed entravamo soltanto se eravamo sicuri di non essere seguiti. Portavamo documenti falsi e guidavamo auto con targhe false. Come i nostri avversari. Io a un certo punto avevo tre false identità».
Quali mezzi avevate?
«Una quindicina di autoveicoli, le Beretta d’ordinanza e le Colt Cobra a canna lunga e a canna corta che ci aveva fatto avere il generale. Credo fossimo gli unici in Italia ad averne. Binocoli e macchine fotografiche. Tutto qui. Oltre alle targhe e ai documenti falsi, questi ultimi spesso trovati ancora da compilare nei covi dei brigatisti, che a loro volta li avevano rubati all’Anagrafe di vari Comuni. Le intercettazioni telefoniche e ambientali allora erano rare, macchinose».
«Mi rendo conto che avevamo mezzi modesti – precisa Brunetti – ma abbiamo saputo usarli. D’altra parte noi allo Stato siamo costati ben poco. Eravamo in servizio quasi senza interruzioni per mesi, a un’operazione ne seguiva immediatamente un’altra. Si viaggiava moltissimo e si dormiva in automobile».
Avete avuto presto i primi risultati
«Sì. Già nell’estate del ’74 abbiamo effettuato le prime operazioni che poi sono culminate l’8 settembre nell’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini, due dei massimi dirigenti delle BR. Operazione effettuata grazie alla collaborazione di Silvano Girotto, detto “Frate Mitra”, il francescano ex guerrigliero che aveva accettato di collaborare con noi e di infiltrarsi nell’organizzazione terroristica. Fu un colpo durissimo per i terroristi, non soltanto sul piano operativo ma anche dell’immagine. L’8 settembre le BR persero la fama di invincibilità».
E lei rimase ferito
«Avevamo preparato un agguato ai brigatisti a un passaggio a livello fuori Pinerolo. Quando la loro auto è rimasta bloccata – avevamo fatto scendere le sbarre al momento opportuno – i nostri si sono precipitati per catturare chi c’era dentro. C’erano Curcio e Franceschini. Curcio, che era alla guida del veicolo, si è arreso alzando le mani. Franceschini ha tentato la fuga, armato di pistola. Il capitano Luciano Seno lo ha preso per il collo con un braccio, con l’altro cercava di disarmarlo. Io ero di fronte a loro, al posto di controllo, su una scala a pioli alta tre metri, appoggiata al casello. Sono sceso il più velocemente possibile, per chiudere la strada al brigatista. Ma nella fretta ho perso la presa e sono caduto a terra, battendo la fronte su del materiale ferroso coperto da un telo. Nonostante la ferita e il sangue che mi colava sul volto sono riuscito ad alzarmi e a bloccare Franceschini puntandogli la pistola contro».
La ferita l’ha costretta a lasciare il servizio
«Ho lasciato definitivamente il 27 marzo 1979, dopo un’interruzione, un rientro al lavoro e vari ricoveri. E sofferenze. Per anni i dolori causati dalla ferita mi hanno tormentato».
E poi ha deciso di raccontare quei fatti
«Mi sembra giusto che i giovani sappiano come a sconfiggere un mostro allora ritenuto da alcuni invincibile siano stati uomini normali ma determinati a compiere il proprio dovere fino in fondo».