Una città di vecchi che, destinati a scomparire nei prossimi anni, saranno sostituiti da giovani senza studio, senza cultura, senza conoscenza dell’ambiente in cui integrarsi, a rischio di diventare una massa di disadattati. Così si profila, secondo le attuali tendenze di sviluppo demografico il destino di Genova, dove intanto la presenza degli stranieri sta già provocando un impatto sociale, ancora da valutare
Genova non si studia abbastanza. I numeri non hanno razza o credo religiosi; non fanno politica. Ma la dettano. Quelli anagrafici sono incrementati da nascite e immigrazione, decrementati da decessi ed emigrazione.
Per una città come Genova questi numeri raccontano una storia che difficilmente troverà una soluzione definitiva nell’accoglienza, nella solidarietà, nell’aiuto, o per inverso nei respingimenti, nel disprezzo o nell’odio.
Perché a diluire questi concetti c’è un solo denominatore comune: il tempo.
E studiare gli effetti del tempo su Genova negli ultimi decenni (220 mila abitanti in meno in 50 anni), sarà sempre più necessario per comprendere cosa sarà di questa città metropolitana nei prossimi cinque, dieci anni. Tre le variabili a tenere il ritmo del futuro prossimo: l’età avanzata dei residenti, la riduzione delle nascite, il pareggio dello sbilancio portato solo dai flussi migratori.
Un dato su tutti: l’indice di vecchiaia.
Questo indice (cioè il numero di ultra sessantacinquenni ogni cento bambini e ragazzi di età inferiore ai 15 anni) sotto la Lanterna è prossimo a 240. Un record non solo italiano per una città grande.
E la demografia fa ben comprendere quali emergenze sociali comporti questa condizione.
In città ci sono oltre 50 mila persone di età avanzata che dividono la vita quotidiana solo con sé stessi. Vedovi e vedove soli in casa. Di questi circa 32mila sono ultrasettantacinquenni. Gli ultra ottantacinquenni raggiungono un numero prossimo alle 10mila unità. Parliamo di una città che di abitanti ne conta meno di seicentomila. A fronte di questo numero enorme di anziani in solitudine, a Genova abbiamo meno di 24 mila bambini tra gli zero ed i quattro anni e pochi di più tra i 5 ed i nove anni. Cifra identica tra i 10 ed i 14 anni.
Quando la natura e le aspettative di vita avranno fatto il loro corso, la popolazione della Superba dovrebbe conoscere un calo di popolazione consistente.
Ma ci sono i flussi migratori a “mitigare” il problema.
Al momento a Genova vi sono circa 54 mila stranieri residenti, numero che si è progressivamente stratificato a partire da circa 20 anni fa. Flussi che continuano, disordinatamente, a far arrivare a Genova altri gruppi di migranti: disomogenei per età, provenienza, sesso. Sono soprattutto giovani uomini.
La teoria dei numeri dice che, tutto sommato, questi arrivi andranno a rimpiazzare i decessi. Genova, dunque, rimarrà probabilmente una città prossima ai 600 mila abitanti, come oggi. Ma con che struttura sociale? Con quali prospettive di sviluppo?
Nel breve assisteremo a un aumento del classismo, che è peggio del razzismo.
I recenti flussi migratori hanno portato in città masse di migranti economici, persone senza titoli di studio, che non conoscono l’italiano, che giungono da paesi dove l’esperienza del lavoro in massima parte svolto (ammesso ne avessero) non ha riscontri in una città post industriale e di servizi come Genova. Giovani che avranno bisogno di tutto (assistenza economica, sanitaria, logistica, scolastica) e che avranno bisogno di anni per poter solo capire il funzionamento del luogo dove dovrebbero integrarsi come componente produttiva ed il come. Senza studio, senza cultura, senza conoscenza della reciprocità, si creerà solo una massa di disadattati, che non avrà modo di integrarsi.
Un investimento obbligatorio di lungo termine, del quale al momento non si conoscono nemmeno i costi.
Nel frattempo? Con quali mezzi la città potrà – se potrà – sostenerne la crescita sociale? Al momento i mestieri che sono nati negli ultimi venti anni al seguito dei grandi flussi sono pochissimi. L’immigrazione, a Genova, dal punto di vista produttivo, non ha portato che una novità. Il “servizio” delle badanti. Un lavoro del quale si è sottovalutato l’impatto sociale, che avrà ricadute sociali più importanti di quanto si possa immaginare. Genova, come si è detto, è una città di anziani ai quali servono i servizi sociosanitari, di persone d’età che hanno risparmiato e oggi non spendono, uomini e donne granitici nella propria immutabilità. Tutto vero, probabilmente. Ma ci si dimentica spesso che gli anziani hanno necessità che li portano a doversi appoggiare a persone terze, perché i familiari non possono o vogliono star sempre loro vicino. A loro sono state affiancate le (o i) badanti. Che oggi rappresentano molto più di quanto il senso comune possa pensare: una rivoluzione di costumi.
Quanto influiscano le badanti nella vita, nelle scelte, nelle abitudini degli anziani, quanto ne orientino i comportamenti e quanto, conseguentemente, possano indirettamente addirittura mutare l’economia commerciale di interi quartieri cittadini lo si può immaginare studiando i numeri riportati sul rapporto di ricerca “le assistenti familiari a Genova” curato (e molto) dall’ Irs Istituto per la ricerca sociale. La datazione del rapporto non priva in nulla la freschezza e l’attualità dello studio. Veniamo alle stime. La pubblicazione dice che a Genova operano oltre 13.200 assistenti familiari. Nove su dieci sono straniere. Le badanti della Superba provengono soprattutto dal Sud America (74%), in particolare Ecuador e Perù. Le europee dell’Est sono una su dieci, soprattutto ucraine, sono più anziane, 49 anni in media contro 42 della media generale, e convivono di più con i loro assistiti.
L’analisi prende poi in considerazione un altro aspetto, delicatissimo: quello della propensione alla regolarizzazione lavorativa. Risultato: un sommerso persistente. Secondo le stime sono solo poco più di un terzo, il 38-40 per cento, le assistenti familiari che lavorano con un contratto di lavoro e, tra coloro che lo hanno, una su due dichiara che le ore lì indicate sono meno di quelle effettive. A queste persone si affidano gli anziani. Li accompagnano a fare la spesa, a fare la passeggiata, spesso indicano loro dove fare la spesa ne curano le scelte su dove consumare un caffè, li accompagnano in banca, ne raccolgono i pensieri, ne sostengono le lagnanze e – secondo la propria cultura – arrivano a crearne i bisogni. Questo quadro, offre già spunto per diverse riflessioni.
Il numero delle persone “occupate” in questo tipo di assistenza, a Genova, è secondo solo al numero dei dipendenti comunali.
Supera la somma di medici e insegnanti pubblici. Disintegra, in percentuale, quello dell’assistenza pubblica. Alle badanti, inconsciamente, sono delegati la qualità della vita, i comportamenti e le scelte della parte fisicamente più debole, finanziariamente più ricca, di Genova. E davvero pesante è il rapporto tra debolezze da assistere e preparazione tecnica delle assistenti. Nella metà dei casi il lavoro di cura è prestato a favore di persone che hanno bisogni enormi: il 29% degli anziani/disabili assistiti è allettato (12% in Italia), il 38% ha problemi di tipo cognitivo, il 69% non riesce a lavarsi da solo. Le persone chiamate a prestar cura ha seguito un corso di formazione per assistenti familiari (il 52%), per ausiliario socio-assistenziale (7%) o per infermiere di base (13%).
Per Genova quello dell’esercito delle badanti è un’autentica rivoluzione, altro che immutabilità. Una rivoluzione che ha visto l’immigrazione coprire un bisogno di assistenza altrimenti non sanabile da figli e nipoti occupati dal proprio lavoro o da altri interessi che non siano i propri anziani. Una rivoluzione le cui ricadute sociali avranno un prezzo ancora tutto da studiare.