«Fare gli imprenditori non ci basta più. Vogliamo essere parte di qualcosa di più grande che si chiama Italia». Così Marco Gay, presidente dei Giovani Industriali apre il 45esimo Convegno di Santa Margherita Ligure. «Non ci basta chiudere bilanci in positivo, non ci basta assumere una persona o evitare un licenziamento. Fare l’imprenditore significa lottare giorno per giorno, in continuo confronto con il mondo politico. Perché la politica è di tutti e serve il contributo di tutti per guardare al domani. Non basta un voto e non serve un veto: servono idee, lavoro comune, creazione di consenso, proiezione internazionale ed esperienza, ma anche dialettica e confronto. E anche noi vogliamo fare la nostra parte: la nostra forza è esserci, con le nostre aziende e con il nostro impegno».
È il momento di “sporcarsi le mani”, come spiega Gay citando don Milani: «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca – spiega – in 14 anni di legge obiettivo, su 285 miliardi stanziati ne sono stati spesi solo 23, non è stato abbattuto il costo delle partecipate, non è stata razionalizzata la spesa sanitaria. Mani pulite ha solo cambiato solo qualche cda. E così dopo vent’anni di corruzione, scandali e appropriazione indebita di denaro, questi problemi tornano sulle cronache».
Il presidente dei giovani industriali “punta il dito” contro la mancata regolamentazione delle lobby, che non fanno distiguere affaristi da chi è realmente portatore di interessi. Per Gay l’Italia attuale è frutto di una rivoluzione che è stata giudiziaria ma non sociale: «Nessuno ha ricostruito gli anticorpi civili ed economici. A 20 anni da Mani pulite siamo di nuovo a confrontarci con corruzione, scandali, appropriazione indebita. Il nostro modo di fare business è differente. Non ci appartiengono queste regole». Gay però mette in guardia: «Dobbiamo avere il coraggio di dire che il populismo è la più subdola tentazione e non dobbiamo farcene scudo. Il sentimento anti casta ha fatto il suo tempo, la politica sta provando a riformarsi. Oggi c’è una nuova classe dirigente, che lavora nelle aule scolastiche, negli ospedali e negli enti pubblici. C’è la voglia di riscatto di tanti giovani, quella classe dirigente siamo anche noi».
Altra nota dolente secondo il presidente dei Giovani industriali: «Il finanziamento dei partiti è uno dei nodi che ha caratterizzato la nostra Repubblica. Nel 2013 il finanziamento pubblico è sparito, affidato alle donazioni dei privati, ma il sistema è un colabrodo pericoloso anche perché non preevede obbligo di trasparenza come invece accade all’estero. In Italia il limite è di 5000 euro a donatore, che può essere reso pubblico solo con il suo consenso, come sempre accade nel nostro Paese è un obbligo facoltativo. Manca da 70 anni una normativa che regoli il funzionamento dei partiti in relazione alla Costituzione. Serve una legge sui partiti, poche regole chiare, con controlli della Corte dei Conti e bilanci trasparenti».
Una politica in continua campagna elettorale cancella le politiche: «Come si possono costruire progetti a lungo termine – sottolinea Gay – abbiamo numeri onnipresenti citati in continuazione, ma non contano nulla se non connettono la causa con effetto. Altrimenti avremo tasse che cambiano a ogni Finanziaria, leggi che abrogano quelle precedenti, facciamoci delle domande serie. Il reddito di cittadinanza è un incentivo a non lavorare o a combattere la disuguaglianza? Senza risposte saremo sempre a inseguire le sentenze della Corte Costituzionale che non deve avere il compito di allocare risorse della P.A. i dati sulla crescita rischiano di essere frutto di variabili esogene».
Il rischio, per il presidente dei Giovani industriali è di prendere come termometro del governo i risultati delle elezioni regionali: «Noi vorremmo valutarne il lavoro su fisco, burocrazia e aspetti concreti».
Le ultime elezioni regionali per Confindustria sono state una sconfitta per tutti: «L’astensionismo è il risultato che spaventa. Alle elezioni del 1948 votarono 92 italiani su 100, domenica scorsa 1 su 2 non ha votato, i partiti hanno perso tutti. Per questo serve coinvolgere le parti sociali, avere una classe politica che si impegna. Se manca la politica industriale come facciamo? L’esperienza delle imprese può fare la differenza, ma se alla task force sulla politica industriale non viene invitato neanche un imprenditore come facciamo? Coinvolgeteci, il nostro impegno non si esaurisce domani smontato il palco, ma dura tutto l’anno, siamo capitale civico da investire per il cambiamento, siamo disposti a prendere i nostri limiti e a trasformarlie in opportunità: aumentiamo la dimensione delle nostre imprese, ma se in Inghilterra l’85% del capitale sociale è investito e in Italia solo il 19-20% come facciamo?».
L’Italia è il Paese dei 70 mila ricorsi al Tar con 500 giorni attesa, peggio fanno solo Cipro e Malta. L’effetto è il blocco di opere come per esempio il Terzo valico in Liguria. Altra anomalia: 32 mila stazioni appaltanti. Il costo della paralisi delle opere pubbliche è un freno pari a 4,9% del Pil: «Il Tar non funziona? Se ne abusa? La giustizia amministrativa non efficiente? Serve una riforma della P.A. quello che vogliamo è avere amministratori pubblici che non abbiano paura di decidere, serve cultura del rischio anche per la P.A. Come diceva Giovanni Falcone “che le cose siano così non vuol dire che debbano andare così”. Quando c’è da rimboccarsi le maniche alcuni pensano che sia meglio lamentarsi piuttosto che fare».
Solo con il confronto su questioni più urgenti per i Giovani industriali si può cambiare il Paese: «I politici sono stati per anni lontani dalla società, oggi la crisi sta finendo, a chi interessa prendersi cura delle sorti dell’Italia? A noi sì, perché è qui che vogliamo restino le nostre imprese. Perché l’Italia sarà anche il Paese più complicato, ma è anche più incredibile, un Paese dove lavorare e non solo dove si fanno vacanze. Siamo giovani e visionari, la nostra storia è quella di chi non si arrende, di chi si sporca le mani e di chi prova a scrivere insieme alla politica. A volte ci scontriamo, a volte ci capiamo, a volte fingiamo di evitarci, ma non possiamo fare a meno, per questo vogliamo aprire le porte delle fabbriche, porte aperte alla società e a chi ha il compito di guidarla. Lo facciamo non per interesse, ma perché l’Italia ci interessa».