L’Italia rischia a breve di non disporre più della quantità sufficiente di guanti monouso da utilizzare in ambito sanitario, in grado di garantire all’operatore e al paziente la massima sicurezza, indispensabili per il trattamento di malati di Covid-19 e in generale per visite mediche e operazioni.
La causa primaria di questa carenza, che ovviamente richiede una soluzione immediata, è che con l’esplosione della pandemia questi articoli sono diventati ricercatissimi in tutto il mondo (la domanda a livello mondiale di guanti e dpi è cresciuta di oltre il 500%) e le richieste ai paesi asiatici che li esportano sono arrivate al limite delle capacità produttive delle aziende (fra l’altro anch’esse in parziale lockdown causa pandemia). La competizione per ottenerli (alla quale partecipano governi di nazioni ben più ricche e potenti della nostra, Stati Uniti in testa) ormai è esasperata in tutto il mondo, e in Italia questo prodotto di scarsa reperibilità viene usato largamente anche fuori dagli ambiti in cui è indispensabile, quelli sanitario, dell’industria alimentare, delle pulizie, della sanificazione e dell’antinfortunistica.
Inoltre le aziende storicamente importatrici dei guanti monouso, una decina le più importanti, tra cui le genovesi Ico Guanti e Gardening, sono messe in difficoltà dalle procedure adottate dalla burocrazia italiana nel controllo delle importazioni di questi articoli.
«Il problema della carenza dei guanti monouso – dichiara a Liguria Business Journal Giorgio Molinari, a.d. di Ico Guanti – nella sostanza è già esploso, anche se l’opinione pubblica non ne è ancora pienamente a conoscenza. Il fatto è che i siti produttivi sono molto limitati e tutti concentrati in quattro paesi, Indonesia, Malesia, Thailandia e, in misura minore, Cina e Vietnam, e con questo enorme aumento della domanda a livello mondiale la capacità produttiva degli impianti è ormai andata a saturazione. Inoltre si tratta di processi produttivi complessi, con stabilimenti ad alta specializzazione, quindi a differenza del caso delle mascherine, non si può pensare di riqualificare impianti destinati ad altre produzioni per fabbricare guanti monouso in lattice o in nitrile. In Italia siamo sei o sette aziende a importare miliardi di guanti all’anno e siamo tutti nella stessa situazione, quella di avere una pianificazione di container in arrivo per i mesi di maggio, giugno, luglio pensata prima della comparsa del Covid-19, quantità che sono un decimo o un ventesimo di quello che occorre ora».
– Come si può affrontare questo problema?
«Quello che cerchiamo disperatamente di fare capire, ma sembra che nessuno ci ascolti e comunque nessuno ci risponde, è che bisognerebbe dare alla popolazione messaggi diversi sull’utilizzo dei guanti monouso. Tutti i messaggi diretti alla popolazione dicono: mettetevi i guanti, uscite con i guanti. Addirittura la Regione Lombardia ha fatto un’ordinanza per cui per prendere un mezzo pubblico bisogna indossare i guanti oltre alla mascherina».
– Non si possono usare altri tipi di guanti?
«I guanti monouso sono tutti molto simili, cambia la certificazione, ovviamente, tra ciò che è dispositivo medico e ciò che non lo è, ma tutti i guanti monouso scarseggiano. Non è possibile che 60 milioni di italiani ogni giorno possano indossare 120 milioni di guanti usa e getta. Se si continua a fare passare questo messaggio il sistema collassa, può succedere a metà maggio o in giugno ma o prima o poi succede, non ci sono quantitativi per fare fronte a queste richieste».
– Esistono alternative ai guanti monouso?
«Certo. La più ovvia è l’igienizzazione frequente delle mani. Bisogna lavarle spesso con acqua e sapone ma se uno è in giro e, per esempio, viaggia sulla metro, può usare un gel igienizzante per disinfettarsi le mani. Questi articoli sono disponibili e si potrebbe favorirne l’uso togliendo l’accisa sull’alcol che contengono e l’Iva, riducendone così il prezzo. Poi in determinati ambiti vanno bene i guanti riusabili, per esempio quelli impiegati in cucina, nell’industria. E invece si parla solo dei monouso, senza che nessuno si prenda la briga di controllare se ci sono».
– C’è anche il problema dei sequestri…
«Un’altra follia. Un decreto del presidente del consiglio dei ministri dà il potere al commissario Arcuri di procedere a sequestri di dpi per rifornire Protezione civile e ospedali, i sequestri stanno avvenendo e sono avvenuti, il decreto del presidente dice espressamente che la società che subisce il sequestro verrà indennizzata a valori del 31 dicembre 2019. Non si capisce se per valore si intende il costo di produzione o il prezzo di vendita, valore è un concetto vago, piuttosto bisognava riferirsi al prezzo di listino o di vendita, a un dato oggettivo, e poi nel dicembre 2019 i prezzi erano del 40-50% più bassi rispetto a oggi. In questi giorni i nostri fornitori dall’Asia ci stanno comunicando che listini per giugno e luglio subiranno aumenti ulteriori del 50, e anche del 60 o 70%. Chi subirà un sequestro nelle prossime settimane rischierà perdite grosse, e poiché questi articoli verranno a mancare, è possibile che nella seconda metà di maggio o in giugno la prassi dei sequestri si intensificherà».
L’ordinanza del commissario straordinario n. 6 del 28 marzo 2020 prevede che l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli debba adottare ogni azione utile allo sdoganamento diretto e celere dei dispositivi di protezione individuale (dpi) e degli altri beni mobili necessari al contrasto alla diffusione del Covid 19. Inoltre è stata definita una procedura di svincolo diretto per le importazioni del materiale dpi destinato a determinati soggetti indicati nell’ordinanza, Regioni, enti locali e pubblica amministrazione in genere, e ovviamente gli ospedali. I dispositivi destinati a soggetti diversi da quelli indicati sono requisibili su disposizione del commissario straordinario. A controllare la destinazione dei dpi sono le Dogane. Lo svincolo diretto si rivolge solo a determinati soggetti che sono quelli che svolgono attualmente servizi di pubblica utilità, e con questa procedura si possono importare sia dpi che altri beni mobili utili al contrasto del Covid-19.
Il ricorso allo svincolo diretto è al momento la prassi individuata dalle aziende, in collaborazione con l’Agenzia delle Dogane, per superare un problema di non facile soluzione. Ma le modalità di attuazione potrebbero diventare oggetto di interpretazioni diverse e più stringenti rispetto a quelle attuali.
«In teoria – spiega Andrea Clerici, a.d. di Gardening – l’importatore per ogni container in arrivo dovrebbe indicare gli articoli e le quantità contenute e i clienti a cui le merci sono dirette. Se la quantità di dpi risulta superiore in maniera “significativa” agli ordini che l’importatore può esibire – e qui entra in gioco l’aspetto discrezionale da parte delle autorità – si parla di accaparramento e le merci possono essere oggetto di requisizione. Così lo Stato subisce un danno, perché il container contiene non solo dpi utili al contrasto del Covid-19 ma anche guanti per uso diverso; se però, come accaduto di recente a nostri concorrenti, viene requisito l’intero contenitore, prima o poi dovrà essere pagata anche merce che non è utile allo scopo; d’altra parte l’azienda non sa quando verrà rimborsata e in che modo. Se rimane fermo il criterio di riferirsi ai valori del dicembre 2019, per le aziende sarà rovinoso. Ma noi importatori non siamo degli intermediari che acquistano merce per conto terzi e potrebbero ordinarne di più per accaparramento, noi importiamo, stocchiamo e poi vendiamo secondo le richieste a una clientela consolidata che sa di poter far conto sulla nostra capacità di rifornirla tempestivamente con quantitativi adeguati. Risulta difficile, per non dire impossibile, presentare l’elenco dei clienti con l’arrivo del container. La mia azienda e altre sono riuscite a utilizzare lo svincolo diretto, per cui in pratica per ogni contenitore in entrata consegniamo alla Dogana l’elenco dei clienti cui la merce può essere destinata; successivamente, prima della spedizione, chiediamo ai clienti che andiamo a rifornire una autocertificazione attestante il fatto che rientrano fra i soggetti considerati esercenti servizi di “pubblica utilità” e sono quindi titolati a ricevere la merce da noi fornita. Bisogna dire che abbiamo incontrato alle Dogane funzionari competenti e comprensivi che, dopo aver attentamente analizzato il problema, ci hanno autorizzato questa prassi, così come a Genova dobbiamo riconoscere al sindaco e ai suoi collaboratori la disponibilità ad ascoltare le nostre istanze e ad affrontare un problema che è non è solo delle aziende ma riguarda la salute di tutti. Proprio in frangenti come questo si rivela indispensabile la collaborazione tra pubblico e privati».
– Con il ricorso allo svincolo diretto non avete risolto il problema?
«Intanto resta sempre una procedura complessa, laboriosa, da noi se ne occupano almeno due impiegati quando non tre, e poi vista la carenza di materiale non escludiamo irrigidimenti procedurali o addirittura nuove ordinanze/interpretazioni che potrebbero complicare ulteriormente le cose. In sostanza quello che io e i miei colleghi temiamo è un ulteriore irrigidimento che porti a non consentire più lo svincolo diretto o, peggio, all’introduzione di nuovi provvedimenti di tipo autoritativo anche per la determinazione dei prezzi di vendita. Siamo già preoccupati per la metodologia adottata finora per le requisizioni, ma un calmieramento dei prezzi di vendita mentre noi subiamo aumenti vertiginosi all’acquisto sarebbe catastrofico. E purtroppo la carenza di guanti monouso che si sta già manifestando e a breve esploderà potrebbe portare a provvedimenti frettolosi e sbagliati».
– E voi che cosa suggerite?
«L’unico modo di venire a capo di questi problemi è sedersi intorno a un tavolo, aziende e autorità, e collaborare. Potremmo confrontarci sulle procedure, definire il fabbisogno per la sanità pubblica, protezione civile, ospedali, eccetera, in termini di quantitativi, verificare se e in quale misura le nostre aziende potrebbero concorrere a soddisfarlo; noi potremmo così evitare il rischio di subire sequestri e lavorare con maggiore serenità. Si potrebbero anche stabilire dei prezzi, qui sì, “calmierati”, assumendo come base di calcolo le nostre fatture d’acquisto e riconoscendo un margine minimo per la copertura dei costi. Non è che vogliamo arricchirci su questa merce».