Pasta alla genovese, la “Genovese”, è un piatto sconosciuto a Genova e nel resto della Liguria e uno dei più noti, e tradizionali, della cucina napoletana. Questa rubrica è dedicata alla diffusione della conoscenza di ricette liguri che corrono il rischio di essere dimenticate oppure sono sconosciute al di fuori di un ristretto territorio, in genere una vallata, della regione. Possiamo chiederci se la genovese è un piatto che abbiamo trasmesso a Napoli e poi dimenticato – e rientra nella nostra area di interesse – oppure con Genova, e questa rubrica, non ha nulla a che fare. La questione è controversa e, almeno secondo noi, non ha una risposta sicura. Però può essere interessante curiosare un po’ sull’argomento. E in ogni caso vale la pena di provare la ricetta: si tratta in sostanza di uno stracotto di carne e cipolla che, se eseguito come si deve, produce un sugo denso e cremoso, molto saporito e profumato, con cui condire la pasta.
Nel “Liber de coquina”, il più antico ricettario di cucina d’area italiana, attribuito ad autore operante alla corte angioina di Napoli nel Trecento (Einaudi, “L’arte della cucina in Italia” di Emilio Faccioli, 1987, pag. 32-33), la ricetta n. 66 “De tria ianuensis” prescrive: «Ad triam ianuensem, suffrige cipolas cum oleo et mite in aqua bullienti, decoque, et super pone species; et colora et assapora sicut vis. Cum istis potes ponere caseum grattatum vel incisum. Et da quandocumque placet cum caponibus et cum ovis vel quibuscumque carnibus». Nella traduzione di Einaudi: «Per fare tria genovese soffriggi cipolle con olio e metti in acqua bollente; fa cuocere e mettivi sopra spezie; e colora e insaporisci come vuoi. Con queste puoi mettere formaggio grattato o tagliato a pezzi. E servile ogni qual volta ti piaccia insieme con capponi o con uova o con qualunque carne».
Tria deriva dall’arabo itriya che significa pasta secca. Tuttora nel Salento, significa pasta nella ricetta “Ciceri e tria”. E Genova è stata una delle prime città italiane ad adottare la pasta come piatto di uso comune: non aveva il grano nel suo entroterra, in compenso possedeva navi che il grano potevano trasportarlo da ogni località del Mediterraneo. La ricetta è interessante ma non è sicuro che sia l’antenata della moderna Genovese: sembra concepita come condimento per uova o carne più che per la pasta – però nel nome contiene il richiamo alla tria – tra gli ingredienti non menziona la carne e non è chiaro che cosa vada messo nell’acqua bollente: le cipolle soffritte nell’olio, la carne, la tria?
Ancora nel libro di Faccioli, a pag. 810-811, troviamo un’altra ricetta che ricorda la Genovese: “Lacierto de vacca mbottunato”, nella “Cucina Teorica-Pratica” del napoletano Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, (1787-1860).
Eccola: «Si po’ lu vuo’ fa mbuttunato, pigliarraje nu bello laciertiello, nce farraje nu pertuso a luongo, a luongo: po’ piglia na fella de prosutto e la ntretullaraje, nu poco de petrusino pure ntretato, quatto spicole d’aglia, pass e pignuole, na capa de casecavallo fatta a pezzulle e la mbottunarraje: miettelo dint’a nu tiano cu llardo pesato, na cepolla ntretata, sale, pepe e tutte spiezie e fallo zuffrijere buono, buono: confromme s’arrussesce miettece nu poco d’acqua a la vota e accossì farraje nu bello brodo pe li maccarune e pe ogne ncosa». Nella traduzione: «Se poi vuoi farlo imbottito, piglierai un bel pezzo di lacerto e vi farai un pertugio per la lunga; poi prendi una fetta di prosciutto e la triterai, un poco di prezzemolo pure tritato, quattro spicchi d’aglio, una passa e pinoli, un capo di caciocavallo fatto a pezzetti, e lo imbottirai; mettilo in un tegame con lardo pestato, una cipolla tritata, sale, pepe e ogni genere di spezie, e fallo soffriggere per bene; a mano a mano che piglia colore, mettici un po’ d’acqua alla volta, e così farai un buon sugo per maccheroni e per ogni altra cosa». (Il lacerto è un muscolo delle zampe anteriori o posteriori). Qui ci sono gli elementi essenziali della Genovese, la carne e la cipolla, però insieme a tanti altri ingredienti come prosciutto, uva passa, pinoli, caciocavallo… E il ruolo della cipolla sembra piuttosto complementare, come quello del prezzemolo. L’odierno sugo napoletano potrebbe essere una semplificazione adottata dalla cucina popolare della ricetta del Cavalcanti ma la parentela è tutt’altro che sicura. Chissà quanti altri stracotti contengono carne e cipolla, senza pomodoro, che prima di fine Settecento non era diffuso neppure al Sud, potrebbero essere presi in considerazione.
Questo per quanto riguarda le testimonianze scritte. Le dicerie tramandate nel tempo e le congetture degli studiosi ci dicono che nel Seicento esistevano a Napoli trattori genovesi che usavano cucinare la carne con le cipolle per una colonia di mercanti genovesi o per i marinai della Superba. Però a Genova della Genovese non c’è traccia. Il “Tocco” è ben diverso.
E ora vediamo come fare la nostra Genovese in Liguria.
Per la carne della Genovese a Napoli si usano diversi tagli di bovino (anche di suino, talvolta). Il più menzionato è il primo taglio dell’”annecchia”, vale a dire la punta dello scamone di vitello ma vanno bene anche lo scamone intero, il girello (cioè il lacerto di Cavalcanti) e altri. In origine il grasso di cottura dovrebbe essere stato la sugna, proveniente dalla zona surrenale dell’animale, tagliata in piccoli pezzi, scaldata lentamente fino a diventare fluida, filtrata dalle impurità e quindi lasciata solidificare. La sugna è alla base della preparazione dei tarallucci, sugna e pepe, tipici della cucina napoletana e una volta condiva la pizza insieme al pecorino. In mancanza, possiamo sostituirla con lo strutto, grasso sottocutaneo sottoposto alla stessa lavorazione, e/o con olio d’oliva. Va escluso il burro. La cipolla più indicata sarebbe quella di Montoro (in provincia di Avellino), dolce al gusto e intensamente aromatica all’olfatto e dall’elevata tenuta alla cottura (che nella nostra ricetta dura tre ore). Possiamo sostituirla con altra varietà di cipolla ramata/dorata.
Ingredienti: 2 kg di cipolle ramate, 1 kg di carne (girello o altro), un bicchiere d’olio extravergine d’oliva oppure di strutto o metà e metà, sale, pepe, un ciuffo di prezzemolo, due carote, una costa di sedano, un bicchiere di vino bianco, pecorino stagionato, pasta secondo necessità. Pasta corta. A Napoli per questo piatto usano molto gli ziti, spezzati a mano. Noi potremmo adoperare i maccheroni di Natale spezzati a mano oppure, più semplicemente, un qualche tipo di pasta corta, tortiglioni e simili. Alcuni preferiscono fare a meno del prezzemolo. C’è chi mette anche qualche pomodorino ma una caratteristica di questo sugo è di essere bianco.
Procedimento. Tagliare a fettine sottili la cipolla. La carne può essere tagliata in pochi grossi pezzi o rimanere intera. Tritare le carote, il sedano e il prezzemolo, metterli a soffriggere nel grasso prescelto e dopo qualche minuto aggiungere le cipolle. Far cuocere un quarto d’ora e aggiungere il vino bianco e la carne. Lasciare sfumare il vino, salare e pepare. Ora viene la parte più impegnativa: il tutto deve cuocere a fuoco bassissimo per circa tre ore, senza ovviamente attaccarsi al fondo del tegame, finché le cipolle non saranno completamente sfatte e trasformate in una crema, insaporita, profumata e colorata dalla carne. Possiamo utilizzare ottimi, pesanti tegami in ghisa smaltata, oggi di moda, e in ogni caso recipienti che permettano una lunga cottura. Con il coperchio, naturalmente.
Il sugo basterà per almeno sei persone. La carne, tenerissima, si può utilizzare come secondo o sfilacciare e aggiungere al sugo. Condite la pasta con il sugo, il pecorino grattugiato e altro pepe, e servitela caldissima. Con quale vino? Questa volta usciamo dal territorio ligure e puntiamo su un corposo rosso campano, come il Taurasi, sia per la pasta sia per la carne.
Placet experiri!