La firma del trattato di non aggressione tedesco-sovietico del 23-24 agosto 1939 è considerato tuttora come una temporanea deviazione, in una prospettiva che fa culminare la seconda guerra mondiale nello scontro tra il Terzo Reich e l’Unione sovietica, iniziata con l’invasione delle truppe tedesche in territorio sovietico l’1 settembre 1941. Invece fu lo strumento che permise a Hitler di invadere la Polonia e diede avvio alle stragi della seconda guerra mondiale. È quanto risulta dal libro, veramente illuminante, di Claudia Weber “Il Patto – Stalin, Hitler e la storia di un’alleanza mortale” (ed Einaudi).
«La guerra che contrappose Hitler a Stalin … – avverte la studiosa – rappresentò il terreno sicuro della memoria della guerra mondiale, mentre la storia del patto generava, allora come oggi, notevole disagio». E proprio «L’osservazione di questo disagio – precisa Weber nell’introduzione – è stata la premessa di questo libro».
Un libro che ha il grandissimo merito di mettere in luce un fattore cruciale della seconda guerra mondiale finora sottovalutato. Stalin nel 1941 aveva fatto circolare con successo l’interpretazione per cui con il patto aveva cercato di ritardare l’assalto all’Unione Sovietica, ritenuto inevitabile. Un’interpretazione che faceva comodo a tutti gli avversari del nazismo, dai democratici come Churchill che, comprensibilmente, concentrava le proprie forze contro il nemico in quel momento più pericoloso, il nazismo, ai comunisti che avevano dovuto sopportare due capovolgimenti politici nel giro di pochi anni e si erano ritrovati alleati dei nazisti, e anche agli stessi nazisti che avevano conquistato il potere anche e soprattutto come nemici del bolscevismo.
Anche nel dopoguerra, nell’Europa occidentale, scrive Weber «la paura di essere accusati di revisionismo impediva di occuparsi in maniera sistematica della cooperazione tedesco-sovietica nei primi due anni della guerra mondiale. Paura che contraddiceva il principio fondamentale della professione di storico, che consiste nel guardare il passato in modo sempre nuovo, nell’interpretarlo diversamente; in breve, nel sottoporre la storia a revisione. Di cosa si occupa la disciplina storica se non del cambiamento?»
Il fatto che l’internazionalismo di sinistra abbia contribuito al successo del nazionalismo dei movimenti fascisti «è uno dei segreti meglio custoditi della politica comunista del XX secolo» ha scritto Francois Furet. Il governo sovietico ignorava ufficialmente la politica di epurazione che veniva praticata all’interno della Germania. La storica riporta una frase del ministro Litvinov, predecessore di Molotov, pronunciata in presenza di diplomatici tedeschi: «Che cosa ce ne importa se fate fuori i vostri comunisti?»
Per i comunisti occidentali approvare la politica sovietica di quegli anni richiedeva svolte ideologiche improvvise, obbligatorie e dolorose. Al VII Congresso mondiale dell’Internazionale comunista nell’estate del 1935, quando Stalin guardava ancora a un’alleanza con Gran Bretagna e Francia, il Congresso adottò la strategia del Fronte Popolare che presupponeva la collaborazione con la socialdemocrazia, i cui aderenti finora erano stati bollati come “socialfascisti” e aspramente combattuti. La teorizzazione del Fronte Popolare forniva la legittimazione ideologica all’alleanza politica con le democrazie occidentali, forze di sinistra progressiste e partiti borghesi. Ma quando con il Congresso di Monaco nel 1938 Hitler, Mussolini, Chamberlain, Daladier “risolsero” la crisi dei Sudeti (sacrificando la Cecoslovacchia) senza la partecipazione dell’Urss Stalin, non a torto, si convinse che le potenze occidentali cercavano un compromesso con Hitler piuttosto che un’alleanza con Mosca. E guardò alla Germania, che oltre tutto poteva promettere espansioni territoriali che le democrazie non si potevano permettere. E d’altra parte Hitler, che arrivato al potere sull’onda del furore ideologico aveva interrotto le relazioni commerciali con l’Urss, molto proficue per il riarmo dell’esercito tedesco, con soddisfazione dei suoi generali si stava orientando verso un atteggiamento pragmatico. La collaborazione militare e l’interscambio commerciale tra l’esercito tedesco e l’Armata Rossa tra il 1921 e il 1935 avevano permesso ai tedeschi (per i quali il riarmo era proibito) e ai sovietici l’ammodernamento dei loro apparati militari e la sua interruzione era stata accolta con disappunto dai vertici della Wehrmacht.
Ai comunisti occidentali fu imposta una nuova giravolta: il Fronte Popolare non esisteva più, il nemico non era più il nazifascismo ma la democrazia borghese e imperialista. E molti comunisti sfuggiti alla persecuzione nazista furono estradati in Germania.
Quindi, quando il 23 agosto l’ambasciatore tedesco Ribbentrop atterrò a Mosca fu accolto in un aeroporto dove bandiere con la svastica e bandiere con la falce e il martello sventolavano festosamente insieme. Il libro di Claudia Weber riporta che l’austriaco Ruth von Majenburg racconta che l’agosto 1939 nella scuola quadri del Comintern «nella biblioteca di letteratura straniera, spesso, invece dei giornali degli immigrati, venivano esposti quelli nazisti… La parola fascismo non compariva più assolutamente nella stampa sovietica. Era come se il fascismo non fosse mai esistito». E quando le truppe naziste vittoriose fecero il loro ingresso a Parigi, i comunisti francesi furono invitati dalla casa madre sovietica ad applaudirli!
Il patto non fu un incidentale deviazione di percorso ma, come documenta la studiosa, Hitler aveva bisogno dell’alleanza con i russi per assicurare l’invasione tedesca della Polonia.
Lo straordinario significato storico del patto e la sua incidenza, si legge nel libro di Weber, «sta nel fatto che le due grandi dittature, legate da un’accanita ostilità, con questo trattato scatenarono la seconda guerra mondiale in Europa. Esso rappresentò l’inizio di una devastante carneficina mondiale che condusse alla Shoah e mise in moto un meccanismo di distruzione di massa. A rendere possibile l’alleanza furono le analogie totalitarie, la volontà di potere imperiale e le correlazioni storiche. Al centro dell’accordo di trovava il Protocollo aggiuntivo segreto, di cui Ribbentrop Molotov e Stalin negoziarono i contenuti nell’agosto a Mosca e di cui Mosca negò sempre l’esistenza fino al dicembre 1992 quando Gorbaciov consentì la consultazione dell’originale russo conservato negli archivi del Cremlino il quale documentava un accordo che avrebbe scosso dalle fondamenta il mito dell’antifascismo comunista. Il protocollo aggiuntivo attestava che Stalin non accondiscese al patto solo per differire l’attacco di Hitler e la guerra all’Unione Sovietica. Entrambi i dittatori condividevano la volontà di espansione politico-ideologica. Il protocollo definiva le “sfere di interesse” di entrambi o meglio i confini dell’Europa orientale. Nella regione baltica essi coincidevano con il confine settentrionale della Lituania, la Lettonia, l’Estonia e la Finlandia rientravano nella sfera di interesse sovietico, la Lituania in quella tedesca. Nel caso di una “riorganizzazione politico-territoriale” della Polonia (cioè di una spartizione, ndr) il confine sarebbe stato la linea dei fiumi Narew, Vistola e San.
Il 1° settembre 1939 la Wehrmacht invase la Polonia. L’Armata Rossa varcò il confine con la Polonia solo due settimane più tardi, il 17 settembre. Grazie a questo ingresso ritardato la propaganda sovietica riuscì a presentare l’Unione Sovietica come una potenza di pace e alternativa rispetto alle forze imperialiste aggressive, intervenuta per difendere i fratelli ucraini e bielorussi, dopo l’invasione tedesca. Agli avversari di Hitler conveniva crederlo o fare finta di crederlo e la versione sovietica è riuscita a imporsi fino al crollo dell’Urss.
Ma, avverte Weber, «Fin dall’inizio la repressione della resistenza polacca fu attuata con azioni militari e atti di violenza coordinati degli occupanti tedeschi e sovietici». Nel “Protocollo aggiuntivo segreto” del 28 settembre 1939 è scritto: «Tutte e due le parti non tollereranno alcuna agitazione polacca che estenda la sua azione ai territori dell’altra parte. Impediranno ogni accenno del genere nei loro territori e si metteranno reciprocamente al corrente delle misure adottate per raggiungere questo scopo».
Qui vorremmo ricordare lo splendido libro “La mia testimonianza davanti al mondo” di Jan Karski (Adelphi). Unitosi alla Resistenza nel 1939, Karski, giovane ufficiale della riserva era stato incaricato di tenere i collegamenti fra lo Stato segreto polacco e gli organi ufficiali del governo in esilio a Londra. Nel 1939 dopo l’invasione della Polonia era stato catturato e rinchiuso in un campo di prigionia sovietico; era riuscito però a scappare e a unirsi alla Resistenza, mentre la maggior parte dei suoi compagni venne fucilata dai russi.
La storica documenta le stragi di ucraini e polacchi compiute dai sovietici compresa quella di Katyn, eseguita su ordine del Politbjuro del 5 marzo 1940 e osserva:
«Nel terrore delle operazioni di annientamento come le esecuzioni in massa di Katyn si manifestò chiaramente l’interscambio tra l’occupazione nazionalsocialista e quella stalinista: un capitolo cui viene riservata scarsa attenzione nella storia del patto Hitler-Stalin».