
I liguri, è noto, sono un popolo di migranti, spinti dai commerci o dalla volontà di conquistarsi una vita migliore sono arrivati ovunque, o quasi, e hanno portato con sé, quando possibile, i loro cibi e loro ricette. Con i nostri avi è emigrato, naturalmente, anche il basilico, anche se non ovunque poi è stato possibile riprodurre quello adatto al pesto, e hanno facilmente attraverso gli oceani varie ricette, ben custodite, più che nei ricettari, nella memoria delle donne.
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Fu così che anche la farinata di ceci sbarcò in America. E divenne popolare in Argentina e Uruguay, dove è conosciuta come “fainà” e in quest’ultimo paese, curiosamente, servita sopra la pizza.
Bisogna dire che ancor prima di varcare l’Atlantico la farinata dall’epicentro ligure si era praticamente diffusa in un tutto il territorio mediterraneo: è comunissima in Toscana, e la si trova facilmente nel basso Piemonte, in Sardegna, a Carloforte va da sé, e persino a Gibilterra, introdotta nel Settecento dalla numerosa colonia di genovesi (sono tuttora comuni nella rocca cognomi come Parodi, Baglietto, Danino, Olivero, Robba, Ferrari, e altri).
Qui non resta che darne la ricetta ligure, semplicissima però di non facile esecuzione nei forni di casa.
FARINATA DI CECI
Per quattro-cinque persone occorrono:
350 grammi di farina di ceci
un litro d’acqua
dodici grammi di sale
Tre cucchiai abbondanti di olio d’oliva ligure
Per alcuni bastano 250 grammi di farina, per altri 300. Forse le variazioni dipendono al diametro del testo, che in genere nelle ricette, purtroppo, non viene indicato. Secondo la nostra esperienza, con un testo di 32 cm vanno bene 350 grammi di farina.
Mettete in una terrina l’acqua, la farina, il sale e l’olio, mescolate con cura ma lentamente finché non sarete sicuri che non vi siano grumi e lasciate riposare. Almeno quattro ore, anche sei.
Preriscaldate il forno alla massima temperatura, che in genere è sui 270 gradi, nei casi migliori sui 300, togliete la schiuma dalla superficie del composto e versatelo nella teglia – possibilmente di rame stagnato – in modo che venga alto circa un centimetro. Massima attenzione a che il liquido sia distribuito uniformemente su tutta la teglia, anche dopo averla riposta in forno, perché i piani di alcuni forni presentano dislivelli. La teglia va unta abbondantemente fino agli orli con altro olio. In linea generale, con questo piatto non bisogna risparmiare sull’olio.
Mettete il recipiente nel forno preriscaldato e lasciate cuocere. Quanto tempo? Finché la superficie della farinata non presenterà il suo caratteristico, bel colore dorato. Dieci minuti, un quarto d’ora dovrebbero bastare.
Servite la farinata caldissima con una bella spolverata di pepe.
C’è chi aggiunge cipolle, carciofi, pezzetti di salsiccia, rossetti, ingredienti che, a parere di scrive, nulla apportano e anzi qualcosa tolgono alla fragranza di questo piatto.
La farinata si accompagna bene con diversi vini bianchi, tra cui per esempio Bianchetta e Lumassina.
2Il Ciuppin
Un altro emigrante che ha fatto fortuna in America è il “ciuppin”, una sorta di passato di pesci con pomodoro. A San Francisco, con il nome “cioppino”, è diventato un piatto elegante e ha dato il nome a un ristorante “trendy”, Cioppino’s Restaurant.
Il cioppino, spiegano laggiù, è uno stufato a base di passata di pomodoro, vino bianco e pesci introdotto da pescatori italiani (presumibilmente liguri, visto il nome del piatto) a San Francisco nel tardo Ottocento. A differenza che nella versione originaria la maggior parte degli ingredienti non viene passata ma resta a pezzi. E quali sono gli ingredienti? Frutti di mare, aragosta, granchio e ogni tipo di pesce sia pescabile da quelle parti. Simile il cioppino di Seattle, derivato da quello di San Francisco.
Ma veniamo al ciuppin di casa nostra
CIUPPIN
Per 4 persone
1 kg di pesce di scoglio (gallinella, sarago, occhiate, scorfano, triglia, cappone)
1 cipolla piccola,
2 spicchi di aglio,
400 g di pomodori da sugo
1 ciuffetto di prezzemolo
1 bicchiere di vino bianco
1 litro acqua
olio extravergine di oliva
sale, pepe
origano/timo/prezzemolo/finocchietto selvatico

Si fa rosolare in olio d’oliva il trito di carote, cipolle, sedano, aglio, poi si versa il pesce disiliscato, squamato e a fatto a pezzi: gallinella, sarago, occhiate, scorfano, triglie, cappone. Non necessariamente tutti questi pesci, Quello che c’è. Si aggiungono i pomodori a pezzettoni, spremuti e privati dei semi (400 gr per un kg di pesce peso lordo), si versa un bicchiere di vino bianco, si copre con acqua. Sale quanto basta. C’è chi insaporisce con origano o timo o un ciuffetto di finocchietto selvatico. Il tutto deve cuocere a fuoco lento circa 20 – 25 minuti poi, liberato da eventuali liste rimaste, viene passato in modo che diventi una crema non troppo densa e non troppo liquida. Un controllo per vedere se vanno bene sale ed eventuale pepe (bianco). Si guarnisce con crostini di pane tostato e strofinato con l’aglio, cozze e, se non avete già messo origano o timo o finocchietto, una spolverata di prezzemolo tritato, versata a fuoco spento. Come vini dovrebbero andare bene vermentino o pigato.
3La “Genovese”
Non tutti i cibi che hanno lasciato la Liguria per fare fortuna altrove hanno seguito la via regolare, nei fagotti degli emigranti, nei ricettari o anche nella memoria dei nostri avi che hanno attraversato i mari. Qualcuno ha seguito vie misteriose, che ancora oggi non siamo in grado di ricostruire.
È il caso della “Genovese”, condimento per pasta popolarissimo a Napoli e sconosciuto da noi. Come ha fatto la Genovese ha trapiantarsi da Genova a Napoli? A dire il vero non è neanche certo che l’origine della ricetta sia genovese. Il nome non è una garanzia assoluta. In Italia, per esempio, abbiamo il Cane Corso, razza che ha il suo epicentro tra Puglia, Basilicata, Molise e pare non abbia nulla a che fare con la Corsica. Comunque, visto il nome, gli storici hanno ritenuto probabile una connessione della Genovese con Genova: alcuni hanno pensato a un quartiere dell’angiporto in epoca aragonese molto frequentato da genovesi, altri a un oste detto “O Genovese”. Certo è che questo celebre sugo è citato nella “ Cucina Napoletana” di Vincenzo Corrado del 1832 e nella “Cucina teorico pratica” del 1839 di Ippolito Cavalcanti, che lo definì “il raguetto” per le sue origini umili. Potrebbe anche essere una derivazione del tucco genovese dove, dei tre odori – sedano, carota, cipolla – il terzo avrebbe acquistato un netto predominio, oscurando gli altri due. Perché una cosa è certa, nonostante le inevitabili varianti: l’ingrediente base della Genovese, insieme alla carne è la cipolla.
Ecco la ricetta
PASTA ALLA GENOVESE
Prendiamo un pezzo di carne di vitello, i napoletani usano quello che chiamano “annecchia”, vanno bene girello, scamone, muscolo dello stinco. E cipolle, peso doppio rispetto a quello dello carne. Se il pezzo di carne è 1 kg e mezzo vi occorrono tre kg di cipolle. Quali? L’ideale sarebbero quello di Montoro, avellinesi, che si trovano anche qui, da Eataly e in certi mercati. Se non trovate le Montoro, pazienza. Vanno bene anche le cipolle giallo-dorate, ma non quelle bianche o quelle di Tropea. Tritate come sempre sedano e carote e versate nella pentola, che dovrà essere adatta a lunghissima cottura, l’ideale sono quelle in ghisa pesante.
Quale sarà il grasso di cottura? In origine era la sugna, grasso di maiale della zona surrenale, molto delicato, quasi del tutto privo di impurità. Ormai è introvabile, almeno qui al nord. Potete provare a sostituirlo con lo strutto, ottenuto dalla fusione del grasso sottocutaneo del maiale. Oppure abbandonate gli scrupoli filologici e usate l’olio d’oliva. Tagliate le cipolle a fettine sottilissime, salatele e versatene metà sul soffritto. Prendete la carne, salatela, ponetela sulle cipolle e ricopritela con le restanti cipolle, che avrete spolverizzato di sale. Ovviamente non bisogna esagerare con il sale, che deve essere proporzionato agli altri ingredienti.
Bagnate tutto con uno o due bicchieri di vino bianco, coprite con un coperchio pesante e a chiusura perfetta e fate cuocere a fuoco bassissimo. E abbiate molta pazienza perché la cottura è lunga. Sei ore. Fate attenzione che le cipolle non si attacchino al fondo ma non dovrebbe succedere se la pentola è coperta bene, e non aggiungete alcun liquido, dovranno essere carne e cipolla e trasudare il loro. A fine cottura troverete una crema dorata, dolce, insaporita dalla carne. Versatela sulla pasta che preferite (penne, paccheri, rigatori, maltagliati, zite), aggiungete abbondante pepe nero e pecorino. I napoletani ne vanno pazzi. E hanno ragione.
Bevete con la vostra pasta alla genovese un bianco fresco e strutturato.
Placet experiri!