Leggendo lo studio “Impatto economico sociale del porto di Genova”, due dati spiccano chiari: il primo è che la filiera portuale attiva complessivamente in Liguria 10,9 miliardi di euro di produzione, 4,6 miliardi di valore aggiunto ed impiega 54mila unità lavoro. Il secondo recita che «la filiera portuale pesa il 10,8% del valore aggiunto della Liguria e l’8,3% per l’occupazione».
Un centro insostituibile, dunque, per il tessuto del territorio e non solo. Un polo su cui investire. Cosa che avviene.
Infatti, riprendendo come fonte l’analisi in merito dell’Autorità portuale di Genova, la stampa specializzata dice che in vent’anni, dal 1994, quando hanno iniziato l’attività con la nascita del porto dei privati, le imprese dei terminal portuali di Genova hanno investito 670 milioni di euro. E gli anni della crisi economica non hanno fermato gli investimenti che dal 2007 al 2015 hanno infatti registrato una crescita del 60%. Con un picco di 61 milioni di euro, record storico, proprio nel 2015, quando il porto ha registrato il record anche per la movimentazione dei container.
E gli investimenti pubblici? Ci sono, certo, ma sono sempre pochi e lunghi ad arrivare. Altrove non è così.
Poco meno di due anni fa, fonte il responsabile della comunicazione e informazione del Porto di Amburgo, Bengt Van Beuningen, in merito allo scalo tedesco si diceva che: «Le infrastrutture sono un problema delle autorità portuali, però anche l’amministrazione cittadina è responsabile per la pianificazione e gli investimenti nel porto. Poi ad Amburgo c’è lo Stato federale, responsabile per le strade attorno al porto che fanno parte della città; il terzo livello è costituito dalle infrastrutture federali come le ferrovie, le autostrade etc. Se un piano include le infrastrutture e le tematiche ambientali con cui è necessario confrontarsi serve molto tempo per coinvolgere tutte queste parti».
Molto tempo anche lì, dunque, per vedere lo Stato intervenire. Ma nel citare il concetto del tempo per ottenere nuovi investimenti, il Porto di Amburgo non aveva ricordato che, solo nel periodo 2004-2009 il Senato di Amburgo aveva approvato (e stanziato) un piano di sviluppo del porto cittadino che prevedeva investimenti per 746 milioni di euro, 262 milioni dei quali per la realizzazione di infrastrutture portuali e logistiche.
Nel programma, denominato “Con riferimento ai mercati in dinamica espansione – Opportunità e potenziali di sviluppo del porto di Amburgo”, il senatore alle Attività Economiche del Land di Brema, Gunnar Uldall, aveva sottolineato come il porto fosse «un pilastro essenziale per un’ulteriore prosperità della città anseatica». A Genova, il porto come pilastro della prosperità non lo ha mai definito nessuno. Anche se lavora e dà lavoro, cresce e si offre come primo volano per la ripresa economica della città. Nonostante i finanziamenti pubblici con il contagocce e una autonomia finanziaria da Corea del Nord. E mentre lo scalo della Lanterna produce numeri di sostanza, Amburgo soffre. I dati consolidati del 2015 erano stati negativi in termini percentuali sulle merci e sui container. Quelli di quest’anno non dicono meglio. Per i tedeschi un motivo di più per sostenere a denaro il proprio scalo, che dà lavoro a 140 mila persone.
Leggi e regolamenti europei vengono intesi, nei paesi membri, in maniera diversa. E lo dice l’Unione Europea.
Nel 2007 la Commissione aveva individuato sfide considerevoli per il settore: i livelli di prestazione, i collegamenti con l’entroterra, le tecnologie esistenti e il loro impatto sull’ambiente, la trasparenza nell’utilizzo dei fondi pubblici, le restrizioni nell’accesso al mercato e l’organizzazione del lavoro nei porti. Italia, con la Liguria capofila, e Nord Europa si sono mosse diversamente. A cominciare da water front e retroporti. Il porto di Genova (come quelli della Spezia e di Savona) sarebbero in grado di cambiare volto alle città di appartenenza, solo facendo, in sedicesimo, quello che (hanno potuto) fare i grandi porti del Nord Europa.
Ma sull’Atlantico parliamo del successo di un mondo al servizio dei porti (in Germania), così come parliamo (in Italia) di crisi di un mondo che al contrario le banchine le sfrutta per drenarne anche le briciole finanziarie. Se ne parla, con la massima attenzione, in una pubblicazione tecnica del centro studi della Cassa Depositi e Prestiti, uno dei centri di finanziamento delle infrastrutture italiane. «La perdita di competitività della portualità italiana è un danno non solo per il settore ma per l’intero sistema economico nazionale, non solo perché questa (portualità ndr) rappresenta il 2,6% del pil ma anche perché è un elemento di competitività per tutto il sistema industriale». Si ricorda nel recentissimo documento (marzo 2016) del Servizio Ricerca del Parlamento Europeo (Autore: Marketa Pape, Servizio di ricerca per i deputati) sull’accesso al mercato dei servizi portuali che «In un terzo tentativo di liberalizzare i servizi portuali nell’Unione europea, nel 2013 la Commissione ha presentato una proposta di regolamento volta a eliminare la competizione sleale e migliorare l’efficienza commerciale dei principali porti marittimi dell’Unione europea». La proposta stabilisce un quadro «per l’accesso al mercato dei servizi portuali e disposizioni comuni in materia sia di trasparenza dei finanziamenti pubblici per i porti che di diritti d’uso, senza influire sulle norme sociali e occupazionali degli Stati membri». Il contesto riguarda i circa 1.200 porti marittimi dell’Unione e ribadisce quanto siano «fondamentali per la sua economia, dal momento che consentono il transito del 74% circa delle merci importate ed esportate e del 37% degli scambi all’interno dell’Unione. Oltre a essere essenziali sia per il settore dei trasporti sia per la competitività dell’Ue, i porti danno lavoro a oltre 3 milioni di persone e possono potenzialmente creare ulteriore occupazione e attrarre gli investitori».