Erano 191 nel 2012 in tutta la Liguria, con un tasso di sviluppo del 6,7% e un saldo positivo di 12 aziende tra nuove iscritte e cessate. I calzolai non sembrano essere per ora un mestiere in estinzione, anche se pare che siano davvero pochi coloro che hanno voglia di impararlo quando è il momento, ossia da giovane. Per questo motivo è una delle professioni artigianali che ormai si tramanda quasi sempre di padre in figlio. Non è un caso che la gestione del calzolaio più centrale di Genova veda nello stesso spazio padre, madre, figlio e nuora. È il caso della Celere in Galleria Mazzini. La titolare Annamaria Bavastro stava il negozio ancor prima di imparare a camminare.
All’epoca la bottega era di suo padre (proprietario dal 1936). Crescendo si innamorò di Armando Burlando e si sposarono. Oggi gestiscono l’attività insieme al figlio Marco e alla nuora Laura, più altre due dipendenti. Altrettanto romantica la storia di Alberto Acosta, 58 anni, che ha appreso il mestiere in Uruguay nella bottega di suo padre: «Sono in Italia da 20 anni, ho fatto altri lavori prima di tornare alle origini con questa professione. Poi mi sono deciso e ho aperto il laboratorio in via de Marini». Ora però Acosta si è trasferito, convinto dall’ultimo gestore della bottega di via San Bernardo, alla terza generazione di artigiani della scarpa, a tenere aperto quel luogo storico: «Carlo, l’ultimo erede, che ora ha 80 anni, mi disse che la bottega aveva chiuso solo durante la guerra. Così mi sono trasferito ». Quella di Acosta è l’ultimo negozio di calzolai in una via che da sempre era caratterizzata da queste attività. Una tradizione secolare che stava per perdersi se non fosse arrivato l’artigiano dall’Uruguay. «Non c’è più apprendistato – sottolinea Bavastro – è difficile che una persona, quando ha finito gli studi, decida di dedicarsi a questa professione».
«Lavorare molto e non guadagnare niente – aggiunge Acosta questo è ciò che attende un giovane che si affaccia alla professione come apprendista. Ormai nessuno ha più intenzione di imparare un lavoro manuale».
«I primi tempi devi solo esercitarti a battere e piantare chiodi – racconta Burlando – imparare bene a usare il coltello, che bisogna affilare almeno 30 volte al giorno a mano. La manualità è tutto in questo mestiere. È capitato che in negozio entrassero persone di 40 o 50 anni chiedendo di poter provare a lavorare, magari perché licenziati altrove, ma è un mestiere che non si può imparare a quell’età». C’è chi è più ottimista, anche se critico: Luigi Melcarne, 51 anni, di origine leccese, titolare della calzoleria Da Luigi a Imperia (uno dei pochissimi ad avere un sito internet), è convinto che i giovani, vista la saturazione del mercato del lavoro, dovranno tornare a “sporcarsi le mani”, anche se in Liguria non esistono corsi di formazione o di aggiornamento: «O si apprende da un collega più anziano, o si deve andare nelle Marche o in Umbria per partecipare a corsi gratuiti, quelli in Lombardia costano molto», ma in Liguria, sostiene Melcarne, è anche difficile “parlarsi” tra colleghi. Marco Puccetti, bolognese, figlio e nipote d’arte, si è trasferito perché ha sposato una ligure. Il suo laboratorio era a Ceparana, da 7 mesi è ad Arcola (il suo negozio si chiama Tacco e Punta): «In Emilia Romagna c’è più tradizione e anche il nostro lavoro là ha più sbocchi perché di appoggio alle grandi fabbriche di scarpe». Il fatto che non ci siano corsi di formazione è un vero peccato, come può un giovane avvicinarsi alla professione? Altrove i centri commerciali assumono apprendisti, ma alla fine saranno in grado solo di fare un tacchetto. La differenza tra ciabattino e calzolaio è che noi siamo in grado di costruire tutta la scarpa e ripararla in ogni componente, ma bisogna carpire i segreti da un collega più esperto».
Per Luigi Melcarne la fortuna è aver avuto buoni maestri: «Avevo fatto le scuole alberghiere, mio fratello era venuto a studiare a Genova e aveva un amico che lavorava in una calzoleria rapida Mister Minit e mi ha convinto a iniziare. Era il 1978. Ho lavorato alla Rinascente, quando nei grossi supermercati c’era ancora spazio per chi faceva riparazioni al volo, ma per specializzarmi ho dovuto chiedere a chi aveva molta più esperienza di me. Ho fatto tesoro di quegli insegnamenti e ora sono in grado di fare tutte le riparazioni possibili e anche di più, mi occupo anche di tappezzeria nautica, sedili per moto e riparazioni di pelletteria».
Melcarne non è figlio di calzolai, ma ha trasmesso la passione alla famiglia: «Mia moglie dà una mano in negozio di tanto in tanto, e ho insegnato il mestiere a mia figlia Giorgia, che si è messa in proprio e ha aperto la sua bottega ad Arma di Taggia a 24 anni, la calzolaia più giovane d’Italia». Abilità, ma soprattutto passione. Questo è ciò che serve per fare il calzolaio, «perché il guadagno non è molto – dice Acosta – puliti sono circa 1000-1200 euro al mese, con i tre mesi estivi da considerare “morti”, in cui si va avanti grazie a ciò che si è fatto nel resto dell’anno». Melcarne conferma: «1300-1400 euro nei mesi in cui si lavora, ma perché ho un buon giro di clienti». Il periodo clou è il cambio di stagione: «Quando si tirano fuori le scarpe invernali o quando si mettono via», spiega Burlando. «Ci sono giorni in cui si lavorano 30-40 scarpe – conferma il figlio Marco – altri in cui se ne fanno 6». Il lavoro del calzolaio va oltre la riparazione delle scarpe, il classico rifacimento del tacco (nella bottega di Galleria Mazzini ci sono ancora i sedili per chi attende la riparazione immediata) o della zip degli stivali o delle cuciture. «Accorciamo maniche, sistemiamo cinture, lavoriamo anche per altri negozi – racconta Burlando – attacchiamo bottoni, le donne di oggi non sono più capaci». Alla Celere è la nuora a occuparsene: «Avevo perso il lavoro e ho provato, oggi sono ancora qui». Nella bottega di Galleria Mazzini si vendono anche scarpe: «Da anni – dice Burlando – ma solo da pioggia, le vendiamo anche ad agosto, ma durano talmente tanto che prima di cambiarle si diventa vecchi – sorride – non possono essere il nostro business principale». «Una scarpa fatta a mano costa centinaia di euro – sottolinea Puccetti – sono pochi quelli che possono permettersela».
«Si fa sempre più fatica – dice Puccetti – perché per risparmiare le persone acquistano le scarpe cinesi a prezzo bassissimo. Quando si rompono ne comprano un altro paio. Lavorare in un piccolo centro, dove si presume che vivano persone agganciate ancora a certe tradizioni, non conviene più molto, anche loro preferiscono le scarpe a basso prezzo “usa e getta”. Prima si guadagnava ora si sopravvive e basta». «Aumentano i costi dei materiali che usiamo – evidenzia Melcarne – le tasse, ma i nostri prezzi no, quindi il guadagno diminuisce». Inoltre i giovani usano sempre di più le scarpe di gomma, difficili da riparare: «Al massimo si possono incollare », spiega Acosta. Anche quelle di cuoio erano fatte meglio, secondo Burlando. È difficile anche “fare sistema” ed è anche l’indotto a soffrirne: la Liguria ha soltanto due fornitori a Genova e Imperia («per noi spezzini ce n’è un altro a Lucca – suggerisce Puccetti – ma è comunque lontano») ed è una delle poche regioni che non ha rappresentanti di categoria, «tanti anni fa avevo cercato di formare gruppo, ma senza successo», rivela Melcarne. «In passato se un calzolaio era malato trovava un aiuto nei colleghi, ora non c’è più questa solidarietà», aggiunge Burlando.