Saranno liguri le nostre ricette. Con un cognome come questo non si poteva fare altrimenti. Ma, si chiederà il lettore, a parte la predestinazione del titolare della rubrica, per quale motivo dedicare una rubrica a ricette di un territorio che, anche eno-gastronomicamente parlando, per fortuna non è affatto sconosciuto? Ogni libreria da Ventimiglia a Sarzana ha i suoi scaffali dedicati alla cucina ligure, genovese, del Ponente, del Levante, dell’entroterra, di mare, ecc… C’era bisogno di G.B. Berodo per sapere come fare il pesto? In effetti, no. Ma noi proporremo ricette un tempo usuali e oggi poco conosciute. Genova, come si sa, è stata una delle prima città d’Italia intensamente industrializzate, e uno dei motori del boom economico del dopoguerra. E rapida industrializzazione vuol dire, ovunque, rivoluzione culinaria, perdita di piatti tradizionali, in genere quelli che richiedono più lavoro o sono a base di ingredienti poveri o per qualche motivo ostici ai gusti nuovi (troppo grassi, troppo saporiti, o troppo evidentemente legati alla materialità della carne e del sangue). Il resto della Liguria è stato influenzato dal capoluogo. I liguri non hanno affatto rinnegato il loro passato culinario ma qualcosa è andato perduto. Vogliamo dare una mano a recuperarlo.
Certo, non mancano libri di cucina che riportano ricette “originarie”, “tradizionali”, ma spesso queste ricette non vengono prese in considerazione dal lettore. Le metteremo in evidenza nella nostra rubrichetta. Archeologia gastronomica? In un certo senso. Ma evitando la trappola del prefisso “ur”.
In tedesco ur vuol dire antichissimo, primordiale, originale, schietto: Ursprache è la lingua originaria, primigenia, Urgeschichte il periodo più antico della storia, Urtext la redazione originale di un testo, letterario o musicale. Uno studioso, di cui non ricordiamo il nome, aveva scritto del “fascino del prefisso ur” a proposito di chi cerca la forma più antica, come la più genuina, di qualcosa. Un effetto del romanticismo, ma non dimentichiamo che nella mentalità occidentale è ben radicato da secoli il mito dell’età dell’oro (dell’argento, del bronzo, ecc..).
Non ci interessa la versione “genuina” di un piatto, che non esiste, come non esiste la versione genuina delle calze o delle camicie. Ogni epoca ha processi produttivi, intrecci commerciali, modi di vivere e di lavorare ai quali un cibo nella sua storia, quando ha una storia, si conforma. I “disciplinari” che vengono redatti su un prodotto o una ricetta possono essere validissimi ma indicano il modo e gli ingredienti migliori per preparare un determinato cibo oggi, con i mezzi di cui disponiamo oggi, non un’antica, ideale, genuina versione, abbandonata per interessi commerciali o per pigrizia. Vanno benissimo l’aglio di Vessalico, il basilico di Pra’, i pinoli di Pisa, ecc… per fare il pesto. Basta sapere che fino a qualche anno fa pochi in Liguria avevano idea di dove fosse Vessalico, e ci si infischiava altamente del fatto che il basilico fosse o non fosse di Pra’. E che in alcuni dei ricettari di metà Ottocento dove si menziona il pesto si consiglia di usare il basilico oppure, al suo posto, il prezzemolo, o la maggiorana o un misto di entrambe le erbe. E quanto all’olio extravergine di oliva… Chi lo usava per fare la focaccia negli anni Cinquanta o Sessanta?
Non idealizziamo il passato, non proponiamo feticci, ma cerchiamo le cose buone che sono state accantonate. Le recuperiamo perché sono buone, e perché grazie a loro possiamo conoscere meglio la nostra storia, anche confrontando e scegliendo tra le varie versioni. E a permetterci di recuperarle e provarle è l’abbondanza generata dagli stessi processi produttivi e commerciali che le hanno emarginate.
Con il “Pestun di fave” o “Marò” inizia la nostra rubrica.
Partiamo da questa ricetta del Ponente ligure perché le fave fresche saranno disponibili ancora per poco, due, tre settimane, e noi vogliamo adoperare prodotti di stagione. E ci dispiaceva aspettare un anno.
A dire il vero il Marò non è stato dimenticato, nel savonese e soprattutto nell’imperiese, ma non è più popolare come un tempo. E nel resto della Liguria è poco conosciuto. Un peccato, perché si tratta di una salsa versatile, poco costosa e facile da preparare.
Vediamo come. Per quanto riguarda la quantità, fate conto di preparare un pesto di basilico alla genovese. Tenete presente le proporzioni: da un kg di fave si ricavano più o meno due etti e mezzo, massimo tre, di prodotto netto. Fate attenzione, specialmente in questi giorni in cui le fave fresche cominciano a scarseggiare, che i baccelli siano sodi, turgidi, non mollicci, e abbiano un bel colore verde brillante. Per tre etti di fave decorticate ci vogliono otto foglie di menta, uno spicchio di aglio (fresco, possibilmente) o anche mezzo, olio di oliva extravergine quanto basta. A proposito di decorticare, non basta togliere la buccia, bisogna eliminare anche il tegumento, la pellicina che riveste il seme. Lavoro indispensabile, facile ma noioso. Fatelo fare a qualcun altro, è la soluzione ideale. Se siete soli o moglie, marito, figli, amici, ecc… non abboccano, rassegnatevi: le pellicine vanno tolte – a meno che i semi non siamo piccolissimi – altrimenti la salsa perde profumo. Poi mettete fave, aglio, menta, olio e un pizzico di sale nel mixer e frullate. Pochi secondi per volta, per non riscaldare la salsa. Naturalmente nella ricetta originale non si frulla ma si pesta nel mortaio. A noi il mixer va benissimo, ognuno faccia come preferisce. Chi usa il mortaio avrà l’avvertenza di aggiungere l’olio alla fine del pestaggio.
A questo punto siamo a un bivio. Le ricette tramandate dai libri di cucina prescrivono di aggiungere pecorino grattugiato. Per la quantità, anche in questo caso immaginiamo che si tratti di pesto di basilico. Ma cuochi/cuoche (casalinghi) dell’imperiese ci hanno assicurato che non usano aggiungere pecorino o altri formaggi al Marò. Trovano l’ingrediente inutilmente dispendioso. Aggiungono aceto, quanto basta, più o meno un cucchiaio per tre etti netti di fave.
Che dire? Visto che questa salsa viene adoperata tanto per condire la pasta quanto per accompagnare carne arrosto o grigliata, un punto fermo è che la versione con l’aceto non va bene con la pasta. Per il resto, de gustibus, ecc… Parere personale: per le carni preferiamo di gran lunga la versione con l’aceto, che se messo nella quantità giusta produce un effetto piacevolissimo, specialmente se la carne è grassa. Un’avvertenza, forse superflua: il sale sarà un po’ meno nella versione con il pecorino, che è già salato di suo, un po’ di più in quella con l’aceto.
Le ricette, scritte e orali, parlano genericamente di carni, arrosto o alla griglia. In effetti, secondo la nostra esperienza il Marò va bene un po’ su tutte le carni. Provatelo con quella degli ovini. Per l’agnello non è più stagione, ma rimangono abbastanza facili da trovare cosciotti e braciole di castrato.
Nei paesi in cui cui si consumano agnello, montone, castrato, pecora, con queste carni troviamo spesso la menta. Pensiamo al sanguinaccio sardo, a base di sangue di pecora condito con timo, pecorino e menta selvatica, alla tradizionale salsa inglese a base di menta, aceto, zucchero, alle innumerevoli ricette del Medio Oriente e della Grecia che abbinano la menta, spesso tritata e mescolata allo yogurt, a spiedini, kebab, arrosti, spezzatini, polpette di ovini, ecc…, alla trippa di agnello dell’Italia centrale, condita con menta tritata e pecorino. Se mezzo mondo mette insieme menta e ovini un motivo ci sarà.
Resterebbe da indicare qualche abbinamento della nostra salsa con i vini. Argomento quanto mai insidioso, perché le scelte possibili sono tante, i gusti personali anche.
Possiamo fare qualche considerazione, senza alcuna pretesa prescrittiva.
Se parliamo di condimento per la pasta ci si può rifare al pesto di basilico, che con il Marò ha in comune l’elemento erbaceo e l’aglio. Potrebbe andare bene un Pigato della Riviera di Ponente. Nel caso di salsa per la carne, la nostra versione preferita, quella con l’aceto, rende ancora più difficile l’abbinamento con il vino. Ma possiamo forse bere acqua (in fatto di birra non abbiamo esperienza) con un arrosto? Certo che no, del resto non è che si rinunci al vino con il bollito di manzo soltanto perché c’è la salsa verde. E allora cerchiamo un rosso che vada bene per la carne che abbiamo scelto.
Placet experiri!