Negli Stati Uniti è stato rivisto ulteriormente al rialzo dal 3,0% al 3,1% annuo il dato finale sulla crescita del Pil del secondo trimestre, a supporto dell’ipotesi che l’economia a stelle e strisce stia nuovamente accelerando, ma anche della maggiore probabilità che la politica monetaria della banca centrale statunitense, la Fed, si riveli nei prossimi mesi più aggressiva di quanto i mercati ipotizzavano la scorsa estate.
È così in larga parte spiegato il recente ritorno di forza del cambio del dollaro statunitense nei confronti delle principali divise internazionali, a cominciare dall’euro, che, dai massimi a 1,2094 di inizio settembre, dopo essere rimasto per alcune settimane poco sotto 1,20, si è poi rapidamente ridimensionato negli ultimi giorni verso area 1,17, condizionato anche dall’esito controverso delle recenti elezioni politiche tedesche, a seguito delle quali, a fronte di un significativo (ma non decisivo) progresso delle cosiddette “ultra-destre” (e, più in generale, delle formazioni politiche “anti-euro” o “euro-scettiche”), la cancelliera Angela Merkel, giunta al suo quarto mandato, ha oggi l’arduo compito di formare nelle prossime settimane un’inedita squadra di governo (in alcune esperienze locali, non sempre di facile convivenza) tra Cdu, Liberali e Verdi.
La “variabile politica” è, dunque, tornata a farsi avvertire sui mercati, soprattutto, valutari, non solamente dopo il voto politico tedesco, ma anche dopo il referendum indipendentista catalano, da cui sono attesi ulteriori sviluppi tra impavide dichiarazioni d’indipendenza e sempre più sentite richieste di un confronto più dialettico tra il governo centrale di Madrid e i leader indipendentisti.
Sale il rendimento del titolo governativo decennale statunitense sopra area 2,30% (2,34%), in un contesto operativo di irripidimento della curva dei tassi d’interesse, a ulteriore conferma delle aspettative di miglioramento del ciclo economico statunitense, con il quale sono pienamente coerenti anche i nuovi record assoluti segnati dai tre principali indici azionari statunitensi: Dow Jones (sopra 22.500 punti), Standard & Poor’s (sopra 2.500) e Nasdaq (sopra 6.500), in un contesto operativo quasi euforico o paradisiaco, con l’indice di volatilità implicita Vix sull’S&P500 ai minimi storici e al di sotto del 10%.
In crescita anche i principali indici azionari europei, dal Dax di Francoforte, le cui società esportatrici ringraziano per il recente deprezzamento dell’euro, al Ftse Mib di Milano, sostenuto dal comparto finanziario ed energetico, a sua volta, trainato dal deciso recupero delle quotazioni del greggio WTI a New York e Brent di Londra, tornati, rispettivamente, sopra 50 e 55 dollari al barile, in scia alle aspettative di un riequilibrio del rapporto domanda/offerta globali e di possibili ulteriori tagli alla produzione dell’Opec nei prossimi mesi.
Anche i dati economici europei hanno evidenziato ulteriori progressi, dopo quelli della scorsa estate: l’indice di fiducia economica della Commissione Europea ha messo a segno a settembre un ulteriore rialzo. Ciò nonostante, il tasso d’inflazione al consumo di settembre all’1,5% annuo si rivela ancora distante dagli obiettivi (stabilmente prossimi al 2%) del Quantitative Easing della Banca Centrale Europea, per il quale il presidente Mario Draghi ha ribadito l’intenzione di proseguire oltre la scadenza del 31 dicembre 2017 qualora il target d’inflazione prefissati non fosse raggiunto.
Il dato tiepido sull’inflazione di settembre e il primo emergere di alcuni rischi politici interni all’Eurozona (in Italia è ancora in corso il dibattito tra vecchie e nuove forze politiche per la Legge Elettorale, sui cui meccanismi si terranno le elezioni politiche di inizio primavera 2018) hanno limitato il rialzo dei tassi d’interesse del bund decennale tedesco in area 0,50% (da 0,30-0,40% di fine estate) e anche il rendimento del nostro Btp decennale ha registrato un rialzo abbastanza contenuto verso area 2,25% (da area 2,10-2,15% di fine estate), mantenendo per ora pressoché invariato lo spread rispetto all’omologo tedesco in area 175 punti base (sarà interessante seguirne l’andamento nelle prossime settimane di dibattito politico, anche in vista della presentazione in Commissione Europea della Legge di Stabilità italiana per il 2018).
Negli Stati Uniti molto attesi gli indicatori anticipatori Ism di settembre per i comparti manifatturiero e servizi e il tasso di disoccupazione con le nuove buste paga create dal comparto non agricolo in settembre: gli analisti stimano che l’effetto combinato degli uragani Harvey e Irma produrrà una sensibile diminuzione del numero di nuove buste paga (156 mila quelle create in agosto), ma sono anche convinti che si tratti di un effetto negativo solamente temporaneo e incapace d’intaccare il trend positivo.
Sempre negli Stati Uniti, di grande rilievo gli interventi della presidente Fed Janet Yellen, del presidente Fed di San Francisco John C. Williams e del presidente della Fed di New York William C. Dudley. Dopo le dimissioni avvenute nelle scorse settimane per “motivi personali” del numero 2 della Fed Stanley Fisher – noto difensore dell’attuale sistema di regole sui mercati finanziari, che, al contrario, il presidente Donald Trump propone di rivedere al più presto – Trump ha dichiarato che, relativamente alla scadenza del mandato di Yellen, intende pervenire al nome del possibile candidato successore alla presidenza Fed entro le prossime settimane: un ulteriore elemento d’incertezza per le prossime settimane sul futuro orientamento di politica monetaria nel 2018 della banca centrale più importante del mondo.