“Gli ultimi giorni di Giangiacomo Feltrinelli” di Aldo Grandi ricostruisce la figura dell’editore miliardario-rivoluzionario attraverso testimonianze e documenti in gran parte inediti. Grandi con la sua scrittura asciutta e fattuale riesce a fornirci un ritratto a tutto tondo di Feltrinelli, della sua personalità, delle sue passioni e contraddizioni, anche se il libro è focalizzato sull’azione politica dell’uomo e sulla dinamica che lo portò a morire dilaniato dall’esplosione di una carica di dinamite sotto un traliccio dell’alta tensione la sera del 14 marzo in località Cascina Nuova di Segrate, Comune oggi compreso nella Città metropolitana di Milano.
Feltrinelli morì nel tentativo di fare saltare il traliccio. Era dotato di scarsa manualità e poco esperto nell’utilizzo degli esplosivi. Voleva colpire il traliccio per provocare un black out nella zona di Milano e dimostrare che il “sistema” economico-politico era vulnerabile. Grandi ricostruisce con chiarezza le convinzioni ideologiche di Feltrinelli, per cui era imminente un colpo di Stato o comunque una svolta autoritaria e repressiva alla quale bisognava rispondere con l’attività armata affiancata a quella politica. Un’attività armata da iniziare subito, con azioni dimostrative, e con basi in montagna come quella dei partigiani. L’editore rivoluzionario avrebbe voluto una conversione di tutte le sigle verso questo obiettivo e una sola organizzazione. Una visione non condivisa dai gruppuscoli che in quei mesi stavano fermentando, secondo i quali la svolta autoritaria semmai andava provocata, costringendo lo Stato a mostrare la sua natura repressiva e le masse popolari a prendere posizione rinunciando all’attendismo riformista imposto dalla sinistra ufficiale. E la base da cui partire, secondo gruppi come Potere Operaio e formazioni armate come le BR, erano le fabbriche e i grandi agglomerati urbani, non la montagna idealizzata da Feltrinelli, suggestionato dai ricordi della guerra partigiana e dal mito di Che Guevara e Fidel Castro.
Avere fatto chiarezza “sugli ultimi giorni di Feltrinelli” è importante perché ha fatto chiarezza sull’ipocrisia con cui parte delle forze politiche e della stampa hanno presentato il fatto. E perché, anche se il lavoro di Grandi termina con la tragedia del 1972, l’ipocrisia, la falsità, le menzogne di molti politici e giornalisti hanno segnato non solo quell’episodio ma gli “anni di piombo”. “Gli ultimi giorni di Giangiacomo Feltrinelli” apre una finestra sull’inizio di una strada costellata di delitti commessi dalla sinistra rivoluzionaria e presentati da gran parte della sinistra ufficiale come opera di fascisti, agenti di servizi segreti, ecc… Alla lettura del libro di Grandi consigliamo di accompagnare quella di “L’Eskimo in redazione” di Michele Brambilla, edizioni Ares (vedi qui )
«Ci furono lacrime sincere da parte di chi lo aveva amato e lo amava ancora – scrive Grandi a proposito del fatto di Segrate – ma ci furono anche lacrime di coccodrillo di chi iniziò a strumentalizzare in un modo o nell’altro la sua morte, chiamando in causa ipotetici complotti orditi da servizi segreti di varia nazionalità, Mossad in primis insieme alla Cia. Ma nessuno sapeva portare delle prove, né allora né tanto meno in seguito, sulla veridicità di questa ipotesi».
Tra i primi a sapere come andarono le cose al traliccio di Segrate furono le BR, poiché, come fu appurato più tardi, Feltrinelli nel suo maldestro tentativo di fare saltare il traliccio era accompagnato da due compagni che rimasero feriti nell’esplosione, riuscirono a fuggire e furono aiutati e soccorsi proprio da militanti della stella a cinque punte che provvidero anche a trasferire materiale dalle basi dei Gap (la formazione creata da Feltrinelli) alle proprie.
L’ipocrisia arrivò ad aggiungere sfumature farsesche alla tragedia quando i dirigenti del Pci si convinsero che la vera vittima del traliccio di Segrate era il loro partito, poiché in quei giorni era in corso, a Milano, il XIII congresso del Partito comunista italiano e l’episodio di Segrate relegò in secondo piano l’assise comunista. (Poi i dirigenti comunisti si convinsero che fosse all’opera un superservizio segreto internazionale con la partecipazione della Cia, del Sid e forse di altri stranieri).
Del resto, pochi anni dopo le BR furono considerate da alcuni addirittura come una specie di avanguardia violenta del movimento degli antidivorzisti in vista del referendum del 12 maggio. Quando nella primavera del ’74, venne rapito Sossi, molti giornali scrissero che il sequestro aveva lo scopo di favorire il fronte del sì! Tra questi il Corriere dell’Informazione, la Stampa, con Andrea Barbato, Panorama. E dopo il referendum, il 26 maggio 1974, Alberto Moravia scrisse sul Corriere della Sera che «il referendum o quello che vorremmo chiamare lo spirito del 12 maggio poterebbe far capire una buona volta agli italiani che essi hanno un mezzo potente per ricacciare indietro la società dei sequestri».
E Brambilla, nel libro che abbiamo citato, riporta quanto scrisse Giorgio Bocca sul Giorno, quotidiano di proprietà pubblica, il 23 febbraio 1975.
«A me queste Brigate Rosse – scriveva il famoso giornalista – fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei Cc e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene come un’ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla». Secondo Bocca «Questi brigatisti rossi hanno un loro cupio dissolvi, vogliono essere incriminati a ogni costo, conservano i loro covi, le prove di accusa come dei cimeli, come dei musei. Sull’auto di Curcio, al momento dell’arresto, vengono trovati dei documenti, delle cartine; in un covo, intatto, c’è, si dice, la cella in legno in cui era prigioniero Sossi… E, naturalmente, bandiere con stelle a punte irregolari». (…) E allora, che cos’erano queste Br? «Una cosa è certa, le vigilie elettorali hanno per queste Brigate Rosse un effetto da flauto magico, due o tre note e saltano fuori nello stesso modo rocambolesco in cui sono scomparse». Conclusione: «Questa storia è penosa al punto da dimostrare il falso, il marcio che ci sta dietro: perché nessun militante di sinistra si comporterebbe, per libera scelta, in modo da rovesciare tanto ridicolo sulla sinistra».
Va notato che nel momento in cui Bocca scriveva quel pezzo, le Br avevano già compiuto una serie di gravi azioni, tra cui i rapimenti del dirigente della Siemens Idalgo Macchiarini, del sindacalista della Cisnal Bruno Labate, di Ettore Amerio, capo del personale del settore auto della Fiat, del sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, avevano ucciso il 17 giugno ’74, a Padova, e, il 16 ottobre dello stesso anno 1974, a Robbiano di Mediglia, il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano era rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con dei brigatisti. E il 9 settembre 1974 erano stati arrestati a Pinerolo due capi storici delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Era difficile, a quel punto, non capire chi fossero le Br: i profili politici di Pietro Bassi e Roberto Ognibene, arrestati a Robbiano di Mediglia e soprattutto di Curcio e Franceschini, erano noti. Sarebbe bastato chiedere informazioni a polizia e carabinieri. Ma le BR rimasero, con loro disappunto, “sedicenti” almeno fino al delitto Moro.
Anni dopo Bocca fece pubblica autocritica, ammettendo di «non avere capito niente».
Comunque, tornando al libro di Grandi e a quei giorni della primavera del 1972, numerosi intellettuali firmarono un appello lanciato da Camilla Cederna: «Giangiacomo Feltrinelli è stato assassinato». «Nell’ambiente del Pci – scrive Grandi – e tra gli intellettuali più vicini alla protesta popolare e studentesca fu anche redatto un documento in cui si dichiarava apertamente plausibile la pista dell’omicidio premeditato a opera di servizi segretri e forse reazionarie sempre in agguato».
A rompere il clima di ipocrisia fu Potere Operaio, il movimento più vicino a Feltrinelli, pur nella diversità di opinioni. Francesco Bellosi racconta a Grandi che «Ci fu una decisione politica, quella di dire la verità, o, almeno, di dirla in maniera pressoché definitiva. Nonostante alcuni contrasti interni al vertice di Potop, il giornale uscì con il titolo”Un rivoluzionario è caduto”, a rivendicare la figura e il ruolo di Feltrinelli. Per il suo onore. Per il nostro impegno. Per la verità. E contro quella sinistra perbene e forcaiola che ha sempre pescato con voluttà nel torbido».
E Lanfranco Pace: «Cominciarono le prime indiscrezioni sui complotti della Cia. A noi questa cosa ci mandava al manicomio, perché malgrado le differenze politiche che avevamo con i Gap e la diffidenza e reticenza verso certi comportamenti, non potevamo accettare che il primo compagno morto in un’azione politico-militare di carattere offensivo venisse camuffato in una trappola dei servizi segreti. Allora facemmo una conferenza stampa in cui rivelammo che un rivoluzionario era caduto con onore… Avevamo rotto un clima omertoso e perbenistico al tempo stesso, e anche opportunistico e piagnone, nella storia del movimento operaio».
Grandi riporta anche quanto scrisse il collegio peritale incaricato degli accertamenti sul cadavere: «Tutte le lesioni riscontrate risultano prodotte in limine vitae e pertanto in coincidenza, o immediata successione cronologica, rispetto al verificarsi dell’esplosione». Feltrinelli non fu ucciso e poi portato ai piedi del traliccio. E non fu drogato: «Le indagini chimico-tossicologiche sono risultate negative».
L’autore osserva che «Non ci furono personaggi misteriosi, agenti segreti e spie infiltrate chissà come e chissà perché. Nessuno le ha incontrate, nessuno le ricorda, nessuno, soprattutto, ne ha mai sentito parlare tra coloro che furono i protagonisti diretti e indiscutibili di questa tragedia tutta italiana, è bene precisarlo». In conclusione «La sua morte non fu altro che l’inevitabile e, ci sentiamo di aggiungere, giusta fine di un uomo che era disposto a pagare qualunque prezzo e a adottare qualunque strumento per abbattere l’avversario, quello stesso nemico che a causa della sua storia personale albergava sempre dentro di lui».