La torta pasqualina del Genovesato, pur nelle sue molte versioni, non è riuscita a colonizzare il Levante ligure, da quelle parti si è diffusa solo in alcune zone ma in generale ha trovato la sua nicchia culinaria già occupata dalle varie torte d’erbe (o d’erbi) della vallate spezzine che le hanno arrestato la marcia. Nell’estremo Levante ligure usano anche torte salate di cereali, come, con sensibili differenze, nelle vicine Lunigiana e Garfagnana.
Questa settimana ci occupiamo della torta di farro, che un tempo doveva essere diffusa nello Spezzino e ora è rimasta soltanto in alcune località, come Santa Maria di Scogna, frazione di Sesta Godano, in Val di Vara. È conosciuta anche la torta di farro di Sarzana, meno semplice e rustica di quella della Val di Vara, vedremo anche quella in altra occasione.
Ma, prima, due parole sul farro, che oggi è di moda ed è un ingrediente da gourmet ma che molti di noi ancora non conoscono.
Il farro, leggiamo nella Treccani, fu il primo grano che, all’inizio della civilizzazione, i pastori nomadi della Siria e dell’Egitto coltivavano, ed è stato trovato nelle antichissime tombe egiziane. La sua patria d’origine è la Palestina con le regioni vicine, ove cresce spontaneamente una forma affine, il T. dicoccoides Körnicke, con spighette spesso con 1 fiore fertile. Era molto diffuso nell’alimentazione dei Greci e dei Romani. I Romani più antichi si cibavano soprattutto di farro; e, anche quando la coltura del grano, già nota nell’Italia meridionale sin dal sec. V a. C., cominciò a diffondersi nel resto dell’Italia, si continuò a coltivare il farro, che era più resistente e cresceva anche in terreni poco fertili. Ve ne erano diverse specie, che si distinguevano per il colore, la bontà, la grossezza del chicco. Ridotto in farina, serviva a formare la puls, cibo nazionale degli antichi Romani e l’antenata della nostra polenta. Il farro si distingue dai classici frumenti coltivati perché mantiene le cariossidi vestite (ricoperte dalle glume e glumette) a fine trebbiatura. Per l’eliminazione degli involucri esterni è necessaria una successiva “svestitura”, (brillatura) un lavoro che, insieme alle basse rese, ha nel tempo provocato il quasi abbandono della coltura, proseguita solo in aree marginali. Quando poi il crescente benessere ha portato all’abbandono delle aree marginali, in particolare di quelle montane, il farro è quasi scomparso.
Oggi è tornato nei negozi, anche nei supermercati, intanto per le sue qualità alimentari. Gli esperti ci assicurano che è una buona fonte di fibre, proteine, vitamine, minerali e composti bioattivi ad azione antiossidante. È ricco di selenio e magnesio, ha un amido a lenta digestione e una tipologia di glutine più digeribile rispetto a quello del frumento. E poiché cresce senza difficoltà anche su terreni poveri di sostanze nutritive ed è molto resistente e non richiede l’utilizzo di fertilizzanti o diserbanti, si presta all’agricoltura “biologica”. Il lavoro supplementare che richiede rispetto ad altri cereali e la minore produttività causano costi che oggi, almeno entro certe quantità, possiamo sopportare grazie alla ricchezza generata dall’industria, dall’agricoltura industrializzata, dai servizi e dalla globalizzazione. Lo stesso processo che aveva emarginato questo cereale ha permesso di recuperarlo.
Le principali qualità conosciute di farro sono farro monococco, farro spelta e farro dicocco. Il farro dicocco, Triticum dicoccum, oggi è quello più diffusamente utilizzato per la produzione di perlato (cioè senza a né crusca né germe) e di pasta. In commercio il farro si trova anche decorticato o integrale, cioè privato soltanto della glumella, e soffiato, vale a dire ottenuto dal cereale al naturale cotto a vapore ad alta pressione. Mentre il farro decorticato deve essere lasciato in ammollo ore e poi cotto piuttosto a lungo, il farro perlato è di rapida preparazione: Niente ammollo e 40 minuti di cottura. Naturalmente, come un tempo, il farro può essere utilizzato per produrre farine e semole a loro volta impiegate per preparare prodotti da forno e pasta, ma è molto usato come base per piatti tipo l’insalata di riso. Si adatta bene a moltissimi accostamenti.
E veniamo ora alla ricetta della torta. Quella forse più nota è detta “Torta di farro di Santa Maria di Scogna”. A documentarla è stato negli anni Novanta il giornalista del Secolo XIX Bruno Della Rosa, nel suo libro “Antiche osterie nell’entroterra spezzino”. Poiché il libro oggi è introvabile, non sappiamo precisamente come fosse la ricetta recuperata da Della Rosa. Rimangono degli usi e delle tradizioni a Santa Maria di Scogna e in generale nei dintorni di Sesta Godano e seguiremo quelli.
Ingredienti: 300 grammi di farro, tre uova, 60 grammi di parmigiano o pecorino grattugiato, 120 grammi di ricotta, un bicchiere d’olio extravergine d’oliva, 300 grammi di farina bianca di grano, acqua, sale, pepe.
Fate cuocere il farro con le modalità previste per il tipo che avete scelto. Se, come noi nella nostra prova, avete scelto quello perlato, dovete semplicemente sciacquarlo e metterlo a bollire in acqua abbondante, in modo che resti sempre coperto dal liquido. Da quando l’acqua arriva al punto di ebollizione fatelo cuocere ancora 40 minuti. Aggiungete il sale dieci minuti prima di spegnere il fuoco. Il farro decorticato ha bisogno di restare in ammollo almeno 12 ore. Una volta ammollato si procede lessandolo per un’ora e mezza. Comunque, controllate le eventuali istruzioni sulla confezione.
Impastaste la farina bianca con l’acqua e il sale, fino a ottenere un composto omogeneo, sodo ed elastico, quindi fatene una sfoglia da adagiare su una teglia oliata. Mescolate il farro bollito con la ricotta, il formaggio grattugiato, le uova, un bicchiere da tavola pieno d’olio, sale, pepe. L’olio ideale sarebbe un Dop Riviera Ligure-sottozona Riviera di Levante. Depositate il composto sulla svoglia livellatelo. Mettete ancora un filo d’olio sulla superficie della torta e infornatela a 200 gradi per 40 minuti. Consumatela quando sarà tornata a temperatura ambiente. Con un Colli di Luni Bianco.
Placet experiri!