“Il cuore selvaggio della natura” di David Quammen (Adelphi) è una scelta antologica di reportage pubblicati tra l’ottobre 2000 e l’agosto 2020 dalla rivista National Geographic, che ci porta nelle zone del pianeta dove sono rimasti brandelli di “natura selvaggia”. Basta dare un’occhiata all’indice del libro per immaginare gli habitat visitati da Quanmen: Repubblica del Congo e Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Nigeria, Kenya, Kamčatka, Tanzania, Uganda, Terra di Francesco Giuseppe, Costa d’Avorio, Angola Botswana, Mozambico, Cile, Argentina.
In questi luoghi batte ancora “il cuore selvaggio della natura”. Ogni reportage del libro di Quammen si può leggere come un appassionante e divertente racconto d’avventura ma l’attenzione dell’autore è sempre puntata sulla natura selvaggia, e sui rischi che corre.
Che cosa intende Quammen per “natura selvaggia”? Un complesso composto da numerosi tipi di creature viventi legate tra loro in un sistema di interazioni. È intrinseco alla sua estensione: per esistere, assicurando la connessione e la diversità dei processi dei grandi ecosistemi, deve superare una certa soglia di grandezza. L e riflessioni dell’autore sono ispirate dagli studi, “imprescindibili”, di Robert H. MacArthur ed Edward O.Winson e al loro libro pubblicato nel 1967: The Theory of Island Biogeography, un’analisi degli ecosistemi. Che possono perdere la propria diversità biologica e il proprio carattere selvaggio se ridotti sotto una certa soglia. La crescita progressiva della popolazione umana, delle sue necessità e attività porta a ridurra la superficie dgli ecosistemi e a frammentarli.
“Questo libro vuole essere anche un monito e uno sprone a farsi carico delle responsabilità personali che ricadono su ciascuno di noi rispetto a una questione tanto importante: il futuro della diversità biologica sul nostro pianeta” leggiamo a pag 406. Quindi “Dobbiamo pianificare un avvenire sicuro non solo per noi e per i nostri figli, se ne abbiamo, ma anche per i leoni, i bonobo, gli elefanti, i salmoni, gli ori polari, le lucertole senza zampe e le api giganti con cui condividiamo il nostro mondo e trovare la volontà a volte di limitarlo” (pag. 407).
Come farlo Quammen non ce lo spiega – a parte la necessità di creare e preservare grandi parchi naturali protetti -: occorrono complesse politiche dell’ambiente che è compito dei Governi e degli scienziati, non degli scritori, mettere a punto. Ma la sua diagnosi non è cupa. “Ho cercato di offrirvi – dichiara – un po’ di piacere, di divertimento e perfino di speranza” (pag.407). Del resto il sottotitolo del libro è “Dispacci dalle terre della meraviglia, del pericolo e della speranza”. Quammen non ci spiega nemmeno perché la biodiversità è preziosa anche per noi umani. Lo dà per scontato.
Comprensibilmente, ognuno di noi lo intuisce. Volendo esplicitare questa intuizione poteremmo ripetere quello che ci dicono gli scienziati: la perdita di biodiversità contribuisce all’insicurezza alimentare ed energetica, aumenta la vulnerabilità ai disastri naturali, come inondazioni o tempeste tropicali, diminuisce il livello della salute all’interno della società, riduce la disponibilità e la qualità delle risorse idriche e impoverisce le tradizioni culturali. Ma non solo. Perché dobbiamo, come ci invita a fare l’autore, risintonizzare il nostro battito cardiaco con quello selvaggio della natura? Perché della natura siamo parte. E la natura fa parte di noi. Molte sono le teorie sul rapporto tra uomo e natura, alcune anche antiumane e pericolose, ma quel che è certo è che stabilire un rapporto positivo con la natura, dopo il terrore, il bisogno, la cupidigia, il rimorso. vuol dire anche riconciliarci con noi stessi.