In “Ascesa e declino dell’ordine neoliberale. L’America e il mondo nell’era del libero mercato”, traduzione di Cesare dal Pozzo (ed. Neri Pozza), Gary Gerstle passa in rassegna un secolo e mezzo di storia americana analizzandone i movimenti centrali. Che ruotano intorno ai concetti di libertà e liberale. Il filo conduttore del libro è quindi il rapporto tra le diverse concezioni del liberalismo.
Il tema della libertà dell’individuo è centrale nel pensiero politico americano: negli Usa i cittadini sono nati come cittadini insieme con la nascita dello Stato, non come sudditi che hanno conquistato la libertà strappandola, gradualmente o con moti rivoluzionari, a un sovrano: gli Usa sono stati costituiti per permettere la realizzazione della libertà personale: la Dichiarazione di Indipendenza (4 luglio 1776) dei tredici Stati uniti d’America indica come diritti inalienabili la vita, la libertà e il perseguimento della felicità, i primi dieci emendamenti alla costituzione americana del 1791 tutelano i diritti individuali (tra l’altro, la diffusione delle armi nel paese è così difficile da limitare anche perché il secondo emendamento dichiara che “il diritto dei cittadini di possedere e portare armi non potrà essere violato”).
Negli Usa quasi tutti i movimenti e i partiti (non tutti: sono esistiti socialisti, comunisti, trotzkisti, esiste ancora un partito comunista, e l’attuale movimento woke promuove manifestazioni e atteggiamenti antiliberali, dogmatici, censori, intolleranti) si sono quindi richiamati al pensieri liberale. Tutti liberali? In modi molto diversi.
Il libro di Gerstle mette a fuoco i vari movimenti non solo politici ma anche culturali e di pensiero, molto differenti, che si sono succeduti nell’alveo del liberalismo: il New Deal di Franklin Delano Roosvelt negli anni Trenta (il termine liberal oltre oceano ormai si riferisce a una concezione dalle caratteristiche simili alla socialdemocrazia europea), la politica criptoroosveltiana di Dwight Eisenhower e Richard Nixon, il liberismo teorizzato da Milton Friedman, il neoliberismo di Ronald Reagan e gli elementi neoliberisti di Bill Clinton.
Ma il risultato più interessante del lavoro di Gesrstle è avere messo in luce un fenomeno che non è stato invisibile ma poco osservato: l’intreccio tra le concezioni libertarie maturate all’interno di movimenti, partiti o anche ambiti sociali politicamente molto distanti. Fenomeno da ricondurre proprio a quella matrice liberale e libertaria da cui sono nati gli stessi Stati Uniti d’America. (Pensiamo ai tanti eroi del cinema americano che sono ascrivibili alla destra “law and order”, fanno uso disinvolto delle armi e in genere della violenza, ma sempre per difendere la propria libertà o quella di altri). Gerstle quindi mette in luce fili che uniscono l’ondata hippie degli anni Sessanta e Settanta con la politica reganiana impegnata a liberare i cittadini da un eccesso di vincoli posti dalle autorità. E ricorda che Friedman dichiarava che i liberali sono radicali, non conservatori. Osservazione che forse Karl Marx avrebbe condiviso.
Il libro di Gerstle si ferma al 2022: annuncia, già nel titolo, il declino di quello che chiama ordine neoliberale. E in effetti i programmi di Donald Trump, che promette dazi e di Kamala Harris che parla di “calmierare i prezzi” (non ha spiegato come, forse tutto potrebbe ridursi a un’indagine di qualche authority, intanto la combattiva candidata alla presidenza potrebbe leggersi con profitto “I promessi sposi”) appaiono piuttosto lontani dall’ortodossia liberale. Anche la situazione internazionale non sembra propizia alla diffusione del libero mercato, piuttosto fa temere una frantumazione dell’economia globalizzata in un mondo diviso in blocchi.
E rimane il fatto paradossale che, per allentare la pressione sui cittadini da parte allo Stato, il liberalismo oggi dovrebbe affidarsi a un forte intervento della politica e dello stesso Stato.