“Come non scrivere” di Claudio Giunta (Utet), troviamo scritto nella copertina, ci fornisce “consigli ed esempi da seguire”, e mostra “trappole e scemenze da evitare quando si scrive in italiano”. Impegni mantenuti. Giunta, anzi, ci dà più di quanto promette nella copertina, e anche all’inizio del libro, dove chiarisce che non intende insegnarci a scrivere ma a spiegarci come non si scrive. “Non si impara a scrivere leggendo un libro sulla scrittura – spiega – come non si impara a sciare leggendo un libro sullo sci. Bisogna esercitarsi: cioè leggere tanto romanzi, saggi, giornali decenti, parlare con gente più colta e intelligente di noi e naturalmente scrivere, se è possibile facendosi correggere da chi sa già scrivere meglio di noi”.
Quindi l’autore passa in rassegna veri e propri errori, stereotipi, frasi fatte, sciatterie, scemenze che si trovano nei giornali, nella pubblicità, nelle leggi, negli avvisi al pubblico, nelle dichiarazioni dei politici, nei comunicati stampa, ecc… Ma, nonostante la sua dichiarazione iniziale, ci dà anche indicazioni utili su come si scrive. Soprattutto nei capitoli “Dove e come mettere la punteggiatura”, “Qualche consiglio sulla sintassi”, “Piccolo promemoria su alcune questioni grammaticali”, “Citate poco, citate pochissimo, quasi niente”, “Consigli di stile”, “Alcuni consigli sparsi molto pratici”.
Del resto l’autore anche dove indica un esempio da non seguire ce ne mostra uno buono da opporgli. In realtà “Come non scrivere” è anche un manuale su come scrivere – lo suggerisce anche il gioco grafico sulla copertina, dove NON è cancellato – e può risultare molto utile purché, come avverte Giunta, sia accompagnato dalla lettura di romanzi, saggi, giornali, ecc…
La parte “distruttiva” è anche la più divertente (ma tutto il libro è spiritoso), specie per chi ogni giorno deve leggere decine e decine di comunicati stampa di enti e aziende, avvisi delle pubbliche amministrazioni, inviti a “eventi”, polemiche tra politici, scritti da comunicatori che, non tutti ma in gran numero, potrebbero fornire a Giunta una corposa riserva di esempi negativi.
Una delle pagine più belle ci sembra quella dedicata alle presentazioni di mostre e musei (pp. 57-59). Dispiace, anzi, che l’autore non abbia dedicato più spazio a questo argomento, anche perché le opere di arte contemporanea stanno diventando beni finanziari, come le azioni, le obbligazioni, le materie prime, gli immobili, ecc… e il loro valore è determinato in parte anche da presentazioni e recensioni. In certi casi – non sempre – nasce il sospetto che artista e critico siano due ciarlatani: ciascuno dei due sostiene l’altro ed entrambi si giovano del fatto di non essere capiti.
Ma quello dell’arte è un terreno scivoloso, specialmente per chi, come l’autore di questo articolo, non è competente in fatto di estetica, intesa come indagine che mira alla definizione e alla classificazione del fenomeno artistico e alla sua valutazione. Mentre la comunicazione che, per esempio, persegue lo scopo di convincere il lettore a pubblicare una nota stampa o a partecipare a un evento, si può giudicare in base alla sua efficacia, il linguaggio dell’arte non è univoco, è aperto alla interpretazione soggettiva. Così, se è verissimo, come afferma Giunta, che “anche l’aura di venerazione che si è creata intorno a certe incomprensibili poesie del Novecento potrebbe riflettere più lo snobismo dei professori – il cui incubo peggiore è di apparire attardati o ingenui ammettendo di non capire, e che all’incomprensibilità pagano quindi spesso un ipocrita omaggio – che la qualità letteraria di quei testi”, sembra difficile trovare un criterio oggettivo e inconfutabile per stabilire il valore di un’opera. Giunta cita Nabokov che trova la poesia di Elliot “non certo di prim’ordine”. Noi, nella nostra modestia, apprezziamo molto Elliot e troviamo Nabokov noioso.
“Come non scrivere” è un viaggio attraverso quell’antilingua che è la lingua usata da moti italiani (non solo politici, amministratori, ecc..) al di fuori dell’ambito colloquiale. Perché siamo afflitti da queste mostruose incrostazioni che ci obbligano a un lavoro di scalpello per arrivare a portare alla luce significati – spesso banali – nascosti?
La spiegazione che ne dà l’autore è il baricentro del libro.
“Da dove nasce questa attitudine italiana – si legge a p. 46 − al bello scrivere (che non è bello per niente?) Come mai la lingua parlata italiana deve indossare questa maschera per poter diventare lingua scritta? Per capirlo bisogna riflettere sulla storia linguistica dell’Italia. L’Italiano standard, l’italiano dell’uso, è una lingua che prima dell’Unità praticamente non esisteva. Esisteva una lingua letteraria scritta fondata su un canone molto selezionato di autori soprattutto toscani del Trecento e del Cinquecento, una lingua che pochi intellettuali padroneggiavano. Ed esistevano i dialetti, che venivano adoperati per la normale comunicazione orale non solo dalle persone del popolo ma anche dagli intellettuali nati al di fuori della Toscana. Con gli amici Alessandro Manzoni parlava in milanese. Alla corte dei Savoia si parlava piemontese o (francese). Perciò dopo l’Unità d’Italia, come ha spiegato Tullio De Mauro, ‘vincere la battaglia contro l’uso esclusivo del dialetto parve possibile soltanto a un prezzo: quello di imporre agli allievi di rifuggire sistematicamente da ogni elemento lessicale e da ogni modulo sintattico usato nel linguaggio parlato, sia in quello orientato verso il dialetto sia, dal momento in cui presero a formarsi le varietà regionali, in quello orientato su queste’. Conseguenze: ‘l’antiparlato, o meglio il parlare ‘come un libro stampato’ è stato l’ideale linguistico più diffuso nella scuola media’. Giunta aggiunge: “In questo modo – osserva il Martini (Ferdinando Martini 1841-1928) – la scuola diventa un luogo in cui, anziché imparare a raffinare e a esprimere con parole adeguate le proprie idee, si ripetono a pappagallo le parole (e quindi le idee) altrui”.