Robert D. Kaplan (1952), politologo americano, per trent’anni si è occupato di affari esteri per “The Atlantic”. È stato corrispondente, tra l’altro dalla Romania, dall’Iraq, dai Balcani, dall’Afghanistan. Era presente alla sanguinosa battaglia di Fallujah, combattuta tra l’8 e il 16 novembre 2004. Titolare della cattedra di Geopolica al Foreign Policy Research Institute di Filadelfia, è stato membro del Defence Policy Board del Pentagono.
“La mente tragica” (Marsilio) è nata dalle riflessioni di Kaplan sulle sue esperienze sul campo. “A spingermi a scrivere questo libro è stata la depressione di cui ho sofferto per anni dopo l’errore di valutazione che avevo commesso rispetto alla guerra in Iraq” – scrive nel prologo (pag. 12). Di che cosa si incolpa il politologo americano? Di avere commesso lo stesso errore del presidente George W. Bush e degli intellettuali neocon sostenitori dell’opportunità di abbattere il regime di Saddam in Iraq.
Kaplan definisce la sua esperienza nell’Iraq di Saddam Hussein “terrificante”. All’epoca il paese era “un’enorme prigione”. Perché, dunque, pentirsi di avere caldeggiato l’abbattimento del regime? Perché questo regime, con la sua brutalità, era riuscito a sopprimere l’anarchia, la violenza di tutti contro tutti. Kaplan non è un pacifista. Prova un “inestinguibile rimorso” perché il suo libro “Gli spettri nei Balcani” avrebbe talmente depresso Clinton da portarlo all’inazione ritardando l’intervento militare degli Usa. Il libro aveva avuto l’effetto contrario a quello che il suo autore sperava. Nel caso dell’Iraq la colpa di Bush e dell’élite Usa, secondo Kaplan, è stata non tanto di avere rovesciato la dittatura di Saddam ma di non avere previsto come sostituirla, aprendo così le porte all’irrompere del caos.
Il caos è ciò che temevano i greci. E la tragedia greca nasce dalla consapevolezza dei limiti dell’agire umano, sempre minacciato dal caos. Non ci mostra una scelta tra il bene e il male e neppure il trionfo del male sul bene ma il trionfo di un bene su un altro bene. I leader politici devono sapere che le scelte a loro disposizione sono limitate, che non tutto è possibile e un giorno potranno trovarsi a dovere scegliere tra opzioni terribili.
Arginare il caos è compito dello Stato ma non si può annullare l’irrazionale. I drammaturghi greci non erano dalla parte del caos ma lo accettavano come componente della realtà. Bisogna avere rispetto per il caos. Nietzsche, secondo Kaplan, lo aveva intuito nella “Nascita della tragedia” nel 1872. Il nemico della ragione è Dioniso, che incarna la forza stessa della vita. Bisogna resistergli ma le forze che scatena non possono essere negate. È la lezione che ci viene dalle Baccanti di Euripide, inorridito dal fanatismo dionisiaco, ma rispettoso della vitalità del suo potere. La sola ragione è irrealistica.
Accettare l’ingiustizia come naturale, però, non significa approvarla e ignorare l’angoscia profonda del vivere. Ce lo mostra lo stesso Euripide nelle Troiane.
Sofocle, nell’Antigone, mette in scena il contrasto tra due valori: la pietà di Antigone per il fratello e la decisione di Creonte di fare rispettare le leggi della polis. Antigone oggi per noi appresenta l’opposizione eroica di un singolo a una legge giudicata ingiusta e disumana: ciò che è legale non sempre è giusto.
Ma, osserva Kaplan, anche il tiranno Creonte ha la sua ragione, rappresenta la razionalità mentre Antigone rappresenta l’emotività e la legge del sangue. Lo stesso tema troviamo nella trilogia dell’Orestea di Eschilo, dove le forze ctonie sono impersonate da Clitemnestra e dalle Erinni, antichissime divinità che tutelano i diritti del sangue, mentre Oreste, Apollo, Atena e l’Aeropago ateniese impongono la legalità della polis e l’ordine portato dai nuovi dei, gli dei olimpici. Le Erinni non vengono eliminate: le forze ctonie sono inglobate nel nuovo ordine e diventano le Eumenidi.
Per formare la griglia interpretativa indispensabile a capire l’umanità e gli eventi, Kaplan ai drammaturghi greci associa Shakespeare. Bisogna “pensare tragicamente per evitare la tragedia” e per riuscirci bisogna “intraprendere un viaggio nel canone greco e in quello shakespeariano”. I greci descrivono gli uomini davanti agli dei, alle forze cosmiche, al fato. Shakespeare, ci spiega il politologo, descrive gli uomini e le donne in conflitto tra loro. “Il male che porta alla rovina personaggi come Lear e Otello è scritto non nelle stelle ma nelle loro mancanze caratteriali. Per Shakespeare il carattere è il destino. Per i greci lo sono gli dei. Presi insieme, nei greci e in Shakespeare troviamo tutto ciò che è archetipico e tutto ciò che è umano. Troviamo la vita nella sua pienezza e nulla la fa risaltare di più che la mente tragica che sopporta la sofferenza e ci convive in modo che alla fine l’ordine possa trionfare sul caos e il mondo possa trovare una qualche forma di consolazione”.
“Nessuna metodologia della scienza politica potrà mai rivaleggiare con le intuizioni dei Greci, di Shakespeare e dei grandi romanzieri” scrive Kaplan.
È profondamente vero: il politologo americano in poco più di 120 pagine condensa una saggezza millenaria. Ma i greci, Shakespeare e i grandi romanzieri citati nel libro, tra i quali Conrad e Dostoevskij, a loro volta sono nodi di una rete sapienziale più vasta. Pensiamo ai biblici Qoelet o Ecclesiaste, e Isaia, mentre l’accettazione degli aspetti oscuri dell’esistenza e dei limiti della ragione e dell’agire politico è espressa da Isaiah Berlin nel “Legno storto dell’umanità” (Adelphi). Non esistono, secondo Berlin, scelte senza perdite in valori. Libertà, giustizia, efficienza, equità, carità, e gli altri valori, non possono stare insieme. Non tutti e non sempre. Bisogna scegliere e questo comporta la responsabilità di una perdita di alcuni valori. Il titolo della raccolta di saggi di Berlin deriva a sua volta da un aforisma di Kant: “Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto”. E nell’aforisma di Kant risuona un passo di Qoelet: “Ciò che è storto non si può raddrizzare” (Qoelet, 15, Bibbia Cei).
La mentalità tragica davvero dovrebbe essere, come suggerisce Kaplan, acquisita, attraverso la grande letteratura, dalle élite intellettuali e politiche che non hanno conosciuto di persona gli orrori della guerra e del caos ma, per quanto illuminante, il libro del giornalista americano non può dirci quali decisioni prendere di fronte a eventi attuali e futuri. Non è un manuale. Putin è di certo accecato dalla hybris, e in qualche modo pagherà l’orrore che ha scatenato, e lo pagheranno i russi, anche quelli innocenti, ma come deve comportarsi l’Occidente? Sostenere a oltranza il leader ucraino Zelensky nella sua pretesa di riconquistare tutti i territori occupati? Non sarà questa scelta frutto di una mancanza di realismo? D’altra parte sembrava irrealistico Churchill nella primavera del 1940, quando la Gran Bretagna era sull’orlo del precipizio e le armate naziste stavano dilagando a occidente dopo avere annientato la Polonia. Era realistico pretendere di non cedere a Hitler non potendo promettere ai propri concittadini altro che «Fatica, lacrime, sudore e sangue»?
E come comportarsi se e quando la Cina invaderà Taiwan, sottomettendo 23,5 milioni di cittadini di quel paese, liberi e, nella stragrande maggioranza, felici di esserlo, e sconvolgendo gli equilibri dell’area del Pacifico? Bisognerà lasciar fare o intervenire in un conflitto che avrebbe alta probabilità di diventare nucleare? C’è da augurarsi che Xi Jinping abbia meditato sulla tragedia greca, in particolare sui Persiani di Eschilo, ma non sembra probabile. Speriamo che lo illumini Confucio.