Dalle vele alle bandiere ai giubbotti di salvataggio, dai bastimenti commerciali e dai pescherecci alle navi da crociera, mercantili, militari e alla nautica da diporto: nata a Genova nel 1926 Veleria San Giorgio, dalla fine degli anni Ottanta situata a Casarza Ligure, ha segnato da protagonista la storia della marineria e della nautica. Con un fatturato 2022 di circa 6 milioni, aumentato rispetto al 2021 del 18%, e una crescita nel primo semestre 2023 intorno al 15%, l’azienda ligure è prima in Italia e terza in Europa nella produzione di giubbotti di salvataggio. È famosa per la qualità del prodotto e la capacità di innovare.
Ce ne parla Anton Francesco Albertoni, past president di Confindustria Nautica, all’epoca Ucina, vicepresidente della Federazione del Mare e amministratore delegato di Veleria San Giorgio.
L’azienda si chiama Veleria ma produce giubbotti. Come è cambiata nel tempo?
«Veleria è nata a Genova nel 1926, manca poco al centenario, che di certo sarà celebrato, è un traguardo importante. Sulla nascita di Veleria San Giorgio abbiamo alcuni documenti, tra i quali l’iscrizione al Ministero della Reale Marina come fornitori ufficiali. L’aveva fondata un comandante genovese, Giordana, dopo avere venduto le quote della nave che comandava. Faceva vele per vecchi mercantili e poi, con la scomparsa del trasporto a vela e la nautica da diporto ancora da venire, quasi solo bandiere. La mia famiglia ha comprato l’azienda nel 1987. Io ero giovane ma c’ero già, insieme ai miei zii, ho perso mio papà che avevo sei anni. Avevamo un’altra azienda che era il Canapificio Ligure, a Sestri Levante, chiuso nell’84-85, che produceva tessuti e filati in canapa e lino. Volevamo fare qualcosa nel settore della nautica e ci è capitata l’occasione di acquistare questa azienda. Da Genova l’abbiamo trasferita a Casarza Ligure perché noi siamo di Sestri Levante. Ci siamo portati il lavoro vicino a casa! Da subito abbiamo dato un’impostazione diversa alla Veleria San Giorgio. Volevamo fare un’azienda che si occupasse della sicurezza in mare».
Perché avete comperato una società che produceva vele e bandiere per specializzarla in dispositivi di sicurezza? Non sarebbe stato più semplice fondarne una nuova?
«Veleria San Giorgio era un marchio storico, di prestigio, da dieci anni era presente al Salone Nautico di Genova, aveva una rete distributiva»
Quindi avete dato subito una svolta
«Sì. E negli anni ci siamo ritagliati uno spazio nella sicurezza individuale. Oggi siamo i primi produttori in Italia e i terzi in Europa, produciamo più di 200 mila giubbotti di salvataggio all’anno. È stato un bel percorso perché il giubbotto di salvataggio nei primi anni era un prodotto molto povero come tecnologia, l’ergonomia non contava, le norme di riferimento erano poche e povere di indicazioni tecniche. Gradualmente, negli anni Novanta in particolare, le cose sono cambiate, il giubbotto di salvataggio è stato riconosciuto dalla Comunità europea un dispositivo di protezione individuale, classificato come tutti gli altri dispositivi di protezione individuale, alla pari di un casco, di un paio di scarpe da lavoro, di un indumento protettivo. Determinante anche per lo sviluppo tecnologico è stata l’introduzione delle normative comunitarie della marcatura CE. Oggi produciamo tra i 200 e i 250 mila giubbotti di salvataggio all’anno, una parte in foam, cioè in espanso, e una parte gonfiabili. Questi ultimi hanno sistemi di attivazione che a contatto con l’acqua, automaticamente, tramite una bomboletta di CO2 gonfiano una camera all’interno di una custodia».
Questi dispositivi si applicano in diversi ambiti. Voi in quali siete attivi?
«Lavoriamo nei quattro settori di destinazione del prodotto, il navale mercantile, compreso tutto il mondo delle crociere, abbiamo in esclusiva contratti triennali con il gruppo Carnival, per tutti i nove brand della Carnival Corporation, il leisure- sportivo, l’aeronautica e il militare. Siamo fornitori di Guardia di Finanza Capitaneria di Porto, Marina Militare».
I giubbotti salvagente sono obbligatori?
«In alcuni paesi come l’Italia è obbligatorio averli a bordo almeno in numero pari a quello delle persone presenti. Ci sono tanti altri paesi in cui non è obbligatorio e per assurdo nei paesi dove non è obbligatorio, come per esempio la Germania o l’Inghilterra, il mercato è molto più evoluto. Perché quando un prodotto diventa obbligatorio, ed è il caso, per esempio, del giubbotto di salvataggio sulle barche da diporto in Italia e in Francia, il prodotto più venduto diventa automaticamente quello più povero, cioè il prodotto in espanso, che costa meno in assoluto, il classico giubbotto arancione che deve costare poco e basta che abbia il certificato di approvazione. Invece tutti i paesi dove il giubbotto non è obbligatorio, chi lo compera lo sceglie per le sue performance, il peso, l’ergonomia, l’impiego, pensiamo al caso in cui lo si debba mettere sopra la cerata, quando piove, in momenti di seria difficoltà. E allora il mercato si sposta verso i prodotti gonfiabili che garantiscono una maggiore vestibilità, una maggiore ergonomia, minor peso, più comodità e agilità nel muoversi a bordo».
In ogni settore avete competitor diversi?
«Abbastanza. Ci sono nostri competitor stranieri che lavorano esclusivamente in alcuni settori. Per esempio il settore navale, mercantile, ha aziende che non lavorano nel settore del diporto, al contrario ci sono aziende che lavorano nel diporto e non lavorano nel navale. Chi lavora nel navale quasi sempre lavora anche nel militare perché i due settori sono abbastanza simili come tipologia di prodotto. Noi siamo presenti in tutti i settori. Facciamo giubbotti per le collezioni delle aziende nel settore sportivo. Ci siamo aggiudicati contratti con Fiv, Musto, North Sail, Slam. Produciamo anche con il marchio delle aziende e in alcuni casi distribuiamo il prodotto. Lavoriamo circa al 45-50% nel navale-mercantile, navi da crociera, un 35-40% nel settore diporto sportivo e il rimanente è nel militare. Poco nell’aeronautico. Qualcosa facciamo ancora nelle bandiere, circa il 5% delle vendite. Esportiamo il 60% del fatturato. Qui a Casarza occupiamo una trentina di persone, dal 2006 abbiamo una fabbrica nostra in Cina con 70 persone. Durante un salone di Shanghai, nel 2006, è entrato nel nostro stand un ragazzo che voleva vendermi delle borse, abbiamo cominciato a parlare, gli ho detto: finita la fiera ti vengo a trovare. Ci siamo conosciuti, gli ho insegnato a fare i giubbotti ed è nata una collaborazione esclusiva con noi. Ci fa tutti i prodotti in espanso, mentre i gonfiabili li fabbrichiamo a casa nostra. Abbiamo a Shanghai il supporto del Registro navale che da anni è là per i collaudi, quindi collaudiamo direttamente a Shanghai».
L’innovazione è veloce?
«L’innovazione nel settore è abbastanza veloce e ci impegna molto. Per noi è importante. Abbiamo un ufficio ricerca & sviluppo con tre persone. Tutta l’attività di r&s è certificata dal Dipartimento di Scienza Applicata e Tecnologia del Politecnico di Torino, in conformità alla disciplina comunitaria. E di recente abbiamo attivato una collaborazione con il Politecnico di Milano per sviluppare nuove tecnologie perché cominciavamo a sentire la mancanza di alcune componenti. Fino a oggi c’era stata facilità nel trasferimento tecnologico, nel senso che era abbastanza consueto, facile, prendere da altri settori tecnologie , materiali, tessuti e adattarli al nostro. Ultimamente il trasferimento è diventato più difficile perché ci siamo evoluti e quindi trovare nuovi spunti per nuovi prodotti, risolvere problemi richiede un processo più impegnativo. Noi dal punto di vista progettuale perseguiamo sempre, costantemente, due obbiettivi: minor peso e minori dimensioni. Mi ricordo quando abbiamo cominciato a fare i primi giubbotti di salvataggio, parlo del ’93-’94, un giubbotto pesava intorno ai due kg, oggi siamo intorno agli 850 grammi, meno della metà. E altrettanto è con il design per i prodotti in espanso. I nostri grandi obiettivi sono: diminuire il peso e diminuire gli ingombri a parità di galleggiabilità. Bisogna tenere presente che le navi da crociera, sono sempre più grandi, hanno sempre più passeggeri – ormai su una nuova nave da crociera ci sono 5-6 mila passeggeri, il che vuol dire avere a bordo altrettanto personale e quindi stiamo parlando di un paese galleggiante. E i giubbotti devono essere il doppio delle persone a bordo, perché il giubbotto deve essere disponibile nella cabina ma anche sul ponte di evacuazione: si parte dal principio che se c’è un allarme e devi indossare un giubbotto se sei in cabina lo prendi in cabina ma se sei al ristorante non puoi andare in cabina a prenderlo, migliaia di persone che si spostano sulla nave per andare a cercare il giubbotto provocherebbero il caos. Chi non è in cabina deve trovare il giubbotto pronto sul ponte di riunione. Così si arriva a 20 mila giubbotti su una nave, un volume enorme. Noi siamo stati i primi a porci l’obiettivo di ridurre al minimo possibile la dimensione del giubbotto rendendolo pieghevole. Ed è il giubbotto dato in dotazione a tutte le 96 navi del gruppo Carnival, ai nove brand. All’inizio del 2023 abbiamo sottoscritto un contratto di esclusiva triennale di fornitura di questo modello di giubbotto di salvataggio, il primo che si piega, si impacchetta. Da derivazione aeronautica abbiamo fatto un prodotto nuovo, un giubbotto gonfiabile per le lance di salvataggio messo sotto vuoto. Lo abbiamo dato alle due navi della Seaburn, uno dei 9 brand di Carnival, costruite da Mariotti – la seconda la varano adesso, l’altra è stata varata l’anno scorso. Sono navi da 350 passeggeri, hanno a bordo 1200 giubbotti, e sono le prime navi al mondo con il giubbotto sotto vuoto gonfiabile. Qui per la prima volta abbiamo fatto anche una stazione di revisione a bordo, perché questi giubbotti devono essere revisionati: si apre il giubbotto, si controlla la pressione d’esercizio, la pastiglia di attivazione, la bomboletta di CO2, tutte le componenti. La norma dice che si deve fare la revisione tutti gli anni per il settore navale. Mettendo il prodotto sotto vuoto abbiamo fatto un accordo con il Registro navale che ha concesso la revisione ogni cinque anni».
Come viene fatta la revisione?
«In genere si rispedisce il giubbotto all’azienda che l’ha prodotto, in questo caso invece noi abbiamo creato una stazione di revisione, un laboratorio a bordo della nave, abbiamo insegnato a sei membri dell’equipaggio a fare le revisioni, loro si collegano via internet con il nostro sistema operativo, e noi da qua insieme a loro facciamo la revisione a bordo. Oltre alle tecnologie abbiamo dovuto inventarci anche il software di revisione. Queste navi, facendo rotte particolari, non avrebbero il tempo e le modalità per mandare a Casarza Ligure il giubbotto per eseguire la revisione, e così gli abbiamo risolto il problema facendo la revisione a bordo. Questo permette di azzerare i costi di spedizione, consegna e ritiro dei prodotti, ottimizzando anche le spese del personale, dal momento che per la revisione si può impiegare quello già imbarcato e formato dai nostri tecnici, sempre disponibili anche per assistenza da remoto. Una soluzione che si rivela così essere un vantaggio per tutti, che permette di risparmiare sui costi ma non sulla sicurezza dei passeggeri».
A quanto ammonta il fatturato del 2022?
«A circa 6 milioni, rispetto al 2021 è aumentato del 18%, e per il 2023 ormai in questi quasi sei mesi siamo in crescita di circa del 15% sul 2022.
Come avete superato le crisi del settore?
Ci sono state due crisi, quella della recessione globale e quella del Covid, quando si era fermato il mondo delle crociere. Nella nautica diporto però il Covid in qualche modo ha un po’ sdoganato l’uso della barca, con il Covid abbiamo visto la famiglia che varava un guscio di noce, bastava allontanarsi dalla spiaggia, si è cominciato a considerare la barca un luogo sicuro dove fare vacanza. Per contro il navale delle crociere si era fermato completamente, e il traffico mercantile ne ha risentito dal punto di vista dei costi, perché viaggiavano meno navi soprattutto nei traffici con la Cina. Noi, avendo la fabbrica là – e il Covid è nato là – all’inizio abbiamo avuto dei problemi perché la prima fabbrica a fermarsi è stata quella in Cina. Ma c’era meno domanda qua, e noi per fortuna viaggiamo con una scorta di magazzino importante, a magazzino abbiamo mediamente tra i30 e i 40 mila pezzi, e sui 200 mila che sono il consumo annuale medio vuol dire avere in casa quasi il 25 % del lavoro.