“Il tempo sacro delle caverne” di Guvenn Rigal (Adelphi) ci accompagna alla scoperta dell’arte parietale del Paleolitico superiore europeo, prodotta tra i 40 mila e i 12 mila anni fa dagli uomini Cro-Magnon. Ci accompagna nel senso letterale del termine perché l’autore, per molti anni guida nella celebre grotta di Lascaux – cercando una risposta alla domanda cruciale: perché i Cro-Magnon (che non sono i nostri antenati in Europa, perché quasi tutti discendiamo dai contadini neolitici del Vicino Oriente con innesti di successive popolazioni, ma sono i nostri predecessori sul territorio europeo) si avventuravano nel fondo delle grotte per dipingere, incidere, scolpire le loro opere? – non ci espone una sua teoria ma ci offre una rassegna ragionata delle teorie formulate dagli studiosi nel corso di un secolo, mostrandoci i punti forti e quelli deboli di ciascuna interpretazione.
Si trattava di pratiche magiche, cerimonie religiose, raffigurazioni mitiche, celebrazioni o evocazioni totemiche, informazioni? Opera divulgativa di altissimo livello, rigorosa ed esposta in modo esemplare, quella di Rigal non ci dà una risposta definitiva a tali domande ma, illustrando il lavoro di chi ha provato e prova a trovare delle risposte, ci apre uno spiraglio sulla vita di quegli artisti e sulla loro cultura.
E a chi non è uno scienziato ma desidera conoscere l’argomento, regala informazioni illuminanti ed emozioni straordinarie. Per esempio, a proposito «delle strade inattese che talvolta percorre la scienza», Rigal ci racconta la vicenda di Georges Charpak, premio Nobel per la Fisica, che per un certo periodo riprese l’idea – inizialmente avanzata da Richard W. Woodbridge nel 1969 – «di far parlare le antiche ceramiche: Si trattava di verificare se i solchi lasciati dagli stili lignei su certe ceramiche neolitiche non potessero avere agito come quelli di un fonografo, registrando accidentalmente suoni prodotti vicino all’oggetto nel momento della sua realizzazione. Purtroppo questa intuizione, che puntava a fare rivivere le voci e i linguaggi delle civiltà perdute, non ha avuto successo. Ma era geniale, e possiamo essere certi che gli scienziati incaricati di far parlare i reperti di Cro-Magnon ne avranno altre, altrettanto geniali». Senza contare il fatto che possiamo sempre sperare che se il metodo è stato ritenuto suscettibile di risultati da un premio Nobel per la Fisica un domani potrebbe trovare oggetti ai quali essere applicato con successo.
Altri argomenti trattati da Rigal possono farci pensare. Il libro è dedicato essenzialmente alle pitture parietali del Paleolitico superiore europeo ma ovviamente ci parla degli uomini che le hanno eseguite. E distrugge luoghi comuni accumulati nel tempo sui “cavernicoli”: che non vivevano in fondo alle caverne, non erano affatto piccoli – i loro resti ossei spesso sono di individui sui 180-190 cm di altezza – avevano i nostri stessi lineamenti, la pelle scura, schiarita molto tardi, circa 13 mila anni fa a cominciare dalle le popolazioni scandinave a cui la depigmentazione della pelle favoriva la sintesi della vitamina D, per generalizzarsi intorno al 7500 a.C. I Cro Magnon erano uomini del tutto moderni sul piano fisico e intellettuale, si esprimevano in linguaggi articolati e, quale che sia il vero significato delle loro pitture parietali, con tali opere hanno dimostrato capacità di elaborazione simbolica.
Altro luogo comune di cui l’autore fa giustizia è la presunta sapienza ecologica dell’uomo pre-industriale. A proposito della megafauna scomparsa con il cambiamento climatico, con la fine della glaciazione (avvenuta senza industrie produttrici di CO2) Rigal osserva: «… Cro Magnon è sempre più spesso rappresentato come uno dei principali responsabili dell’estinzione della megafauna glaciale. L’altro è il cambiamento climatico, la cui influenza è riconosciuta ma che non può certo spiegare tutto, dato che i periodi precedenti interglaciali non avevano conosciuto un’ecatombe simile. Anche se l’immaginario occidentale ama rappresentare le popolazioni native attuali come una sorta di guardiani della natura con un’elevata sensibilità ecologica, oggi sappiamo che i loro antenati furono direttamente responsabili di diverse estinzioni quando si diffusero su nuovi continenti. Furono, per esempio, all’origine della scomparsa del bradipo gigante in America del Sud, o del vombato e del canguro giganti in Australia. Studi recenti dimostrano che, su scala globale, questi modelli di estinzione presentano una maggiore correlazione statistica con l’espansione umana che con il cambiamento climatico. Anche in Europa studi riferiti a due specie in particolare – il mammut lanoso e l’orso delle caverne – supportano l’ipotesi che la loro estinzione sia legata principalmente alla caccia, mentre il cambiamento climatico non avrebbe avuto che un ruolo secondario».
Ma c’è ben altro. Rigal ci informa che non più di 150 mila anni fa coesistevano sulla terra almeno cinque umanità differenti: Sapiens, Neanderthalensis, Erectus, Florisiensis e l’uomo di Denisova. E che parte dei geni di queste “umanità”, è tuttora presente in attuali popolazioni attuali. Per quanto riguarda il Neanderthal l’autore ci fa sapere che «grazie a uno studio genetico condotto da Richard Green preso il Max Planck Institute di Lipsia nel 2010, si è ottenuta per la prima volta conferma che una mescolanza genetica tra Sapiens e Neanderthalensis si era effettivamente prodotta, nella fattispecie nel Vicino Oriente tra il 60 mila e il 50 mila BP (Before Present: qui è ripreso il sistema di datazione adottato da alcuni scienziati riferito non alla nascita di Cristo ma al presente, per convenzione fissato nel 1950, ndr)».
Del resto le prime vere sepolture con inumazione del defunto – che presuppongono una qualche credenza in una vita futura, un pensiero “metafisico” – compaiono circa 100 mila anni fa nel Vicino Oriente e sono opera sia di Neanderthal sia di Sapiens. Questa vicinanza culturale spiega anche l’interfertilità che ha reso possibile lo scambio genetico tra Neanderthal e Cro Magnon, tanto che alcuni scienziati ritengono che il Neanderthal, scomparso verso il 40 mila a.C., si sia dissolto nel Sapiens. Tuttora, secondo i genetisti nel nostro Dna sarebbe presente un 2% di Dna di Neanderthal. Non negli africani, perché il Neanderthal si è formato fuori dell’Africa.