Michael Connelly ha scritto romanzi tradotti in 40 lingue, venduti per oltre 80 milioni di copie. Uno degli scrittori di maggior successo al mondo. Ma è stato anche un ottimo giornalista di cronaca nera. Ha lavorato da giovane per alcuni quotidiani della Florida e, con un’intervista ai sopravvissuti all’incidente aereo sul Delta 191, è entrato in lizza per il premio Pulitzer. Poi è passato al Los Angeles Times, una delle più importanti testate degli Stati Uniti. Da cronista di nera ha conosciuto i meccanismi della polizia e della macchina giudiziaria americana. E i suoi romanzi sono avvincenti non solo per la costruzione della trama – negli ultimi si sviluppano e si intrecciano due trame, con doppia suspence che incatena il lettore fino alle due soluzioni finali – ma anche per la verosimiglianza del contesto in cui le vicende vengono narrate. Superano i confini della narrativa di genere e sono la dimostrazione della veridicità dell’aforisma attribuito a Umberto eco per cui «Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro». Immortalità e, nel nostro caso, anche ubiquità: la lettura dei romanzi di Connelly ci immerge in Los Angeles, dove sono ambientati, e negli uffici del Los Angeles police department, con i suoi poliziotti eroici, pronti a sacrificare la vita privata e a rischiare la carriera per fare bene il proprio lavoro, oppure pigri, o corrotti, opportunisti, violenti, assassini, eccetera.
In “Le ore più buie”, in Italia pubblicato nei giorni scorsi da Piemme (traduzione di Alfredo Ciolitto), il romanziere-cronista si aggancia agli ultimi eventi della vita negli Usa, la protesta di Black Lives Matter, con il conseguente clima di diffidenza e ostilità di una parte della popolazione americana nei confronti della polizia e il malessere all’interno del Lapd. Un malessere originato non solo dal confronto con la popolazione ma anche da tensioni interne: la presenza tra i poliziotti di Los Angeles di americani originari di ogni parte del pianeta (che rispecchia il pluralismo etnico-linguistico della popolazione ed è ormai indispensabile per dialogare con i vari gruppi che la compongono) e quella della donne comporta difficoltà di adattamento di una parte dei poliziotti maschi bianchi, scontri tra stereotipi, diffidenze, anche violenze. Noi viviamo, non solo vediamo, tutto questo, seguendo le mosse dei due protagonisti, Renée Ballard e Harry Bosch (che tra l’altro, come noi, si trovano alle prese con mascherine e vaccini). Fino a condivere lo sconcerto di Bosch per l’assalto al Campidoglio.
Ballard, donna, di origine polinesiana, quindi per gli standard Usa “di colore”, facilmente assimilabile ai nativi “indiani”, si scontra, a caro prezzo, con questi stereotipi e con l’opportunismo di parte dei colleghi e della gerarchia, ma procede implacabile, animata da una passione profonda per la giustizia e per il proprio lavoro. Arriva al punto di trasgredire le regole e le convenienze del Dipartimento e a scontrarsi con la gerarchia interna e con alcuni colleghi, pagandone le conseguenze. Al suo fianco ha Harry Bosch, che queste regole e convenienze ha infranto più volte senza troppi scrupoli. Ormai in pensione, vecchio, malato, Bosch è ancora energico e animato dalla stessa passione della collega.
Gli eroi di una saga si possono dividere in quelli che vengono rappresentati con una vita che corre diversamente dalla nostra, in cui mantengono sempre la stessa età, o invecchiano con tempi rallentati, oppure irregolari, e quelli che invecchiano come con noi (e il loro autore). È il caso di Bosch che, nato nel 1950, abbiamo visto in azione per la prima volta nel 1992 (“La memoria del topo”), diventare brizzolato negli anni, avvicinarsi alla pensione e poi lasciare il Lapd, continuare come detective a tempo parziale in una polizia meno importante, lo Sfpd di San Fernando, e ora ritroviamo sempre attivo ma come investigatore privato, e colpito da una malattia seria. Ha conosciuto Renée Ballard in un’avventura raccontata in un romanzo precedente. Un’altra caratteristica della narrativa di Connelly è che i suoi personaggi, Mickey Haller, Bosch, ora Ballard, si incontrano, fanno un tratto di strada insieme, procedono da soli e poi intrecciano di nuovo le loro vite. Con Haller, Bosch in un romanzo addirittura scopre di essere fratellastro. La giovane Ballard si colloca in una zona affettiva che la avvicina alla figlia di Bosch, Maddie. Che intende intraprendere la carriera del padre e sta per finire l’Accademia per poi entrare nella polizia. E chissà se la troveremo, un giorno, a fianco di Ballard e del padre. A meno che Connelly non decida di porre fine alla vita del principale dei suoi personaggi e di proseguire con la nuova generazione. La vita di Bosch è breve e precaria come quella dei suoi lettori.
Della duplice trama possiamo dire che il romanzo inizia la sera di Capodanno del 2020, e a Hollywood è il caos. Impegnata nel turno di notte, Ballard osserva la pioggia di proiettili che segna la mezzanotte (negli Usa le armi, è noto, sono molto più diffuse che da noi e c’è chi, la notte di Capodanno, invece di dare fuoco ai petardi spara verso il cielo con la pistola). Inevitabilmente i proiettili tornano a terra e a volte colpiscono qualche sfortunato. In questo caso un uomo viene centrato alla testa e ucciso da un proiettile ma Ballard capisce che non si tratta di un caso bensì di un omicidio. E indaga, imbattendosi, tra l’altro, in un vecchio omicidio irrisolto su cui aveva indagato Bosch. Che così torna in scena. Nel frattempo la detective è determinata a scoprire e arrestare gli “Uomini della Mezzanotte”, una coppia di stupratori seriali che da settimane terrorizza le donne della città. La giovane e l’anziano detective, legati da affetto e stima, procedono insieme (anche se, ormai, è Ballard la capofila) e il finale lascia pensare che potrebbero incontrarsi ancora.