A 10 anni dall’alluvione del 4 novembre 2011, con la piena del Fereggiano che provocò la morte di sei persone, molte azioni sono state intraprese per ridurre il rischio esondazione. La più rilevante è la realizzazione dello scolmatore, che intercetta le acque del Fereggiano in caso di piena e, mediante una galleria, le convoglia direttamente verso il mare. Allo stesso tempo, poco o nulla è stato fatto lungo i versanti, dove i fenomeni di instabilità continuano a verificarsi in caso di piogge particolarmente intense. Insieme all’Ordine dei geologi della Liguria, Sigea Liguria (Società italiana di geologia ambientale) e Università di Genova (Distav, dipartimento di Scienze della Terra), percorriamo la valle del Fereggiano soffermandoci sui luoghi più significativi dell’alluvione, evidenziando gli effetti di un’urbanizzazione spesso incontrollata e le criticità tuttora esistenti.
«Abbiamo scelto la valle del Fereggiano non solo per la tragica ricorrenza – ricorda Guido Paliaga, presidente di Sigea Liguria – ma anche perché è identificativa dell’intero territorio ligure: piccole valli, molto ripide, in cui l’edificazione si concentra nella parte bassa. Piazzetta Pedegoli, nel quartiere di Quezzi, rappresenta la zona di congiunzione tra la parte alta del bacino, con caratteristiche di naturalità, aree boscate e terrazzamenti, e una parte bassa che nel corso degli anni ha subito edificazioni sconsiderate».
Scendendo in via Pinetti si incontra l’opera di presa dello scolmatore del Fereggiano, cioè quell’infrastruttura idraulica che consente di “scolmare” l’acqua in eccesso del torrente, in situazioni di piena, trasportandola direttamente verso il mare e sottraendola al bacino del Bisagno, riducendo così anche il suo pericolo di esondazione.
La galleria ha una lunghezza di 3.700 metri e un diametro di circa 5 metri. «A fronte di una continua manutenzione e pulizia, quest’opera rappresenta la soluzione perché alleggerisce la portata del Fereggiano – spiega Barbara Musante, vicepresidente dell’Ordine dei Geologi della Liguria – È stata costruita per farsi carico della portata duecentennale, come vuole la normativa, ma è stata testata anche sulla portata millenaria, cioè quella eccezionale che purtroppo si è verificata nell’alluvione del 2011. Una piccola parte di acqua continuerà a scorrere nell’alveo naturale, mentre fino a 87 metri cubi al secondo potranno confluire nello scolmatore». Attualmente sono ancora in costruzione le opere di presa del rio Rovare e del rio Noce.
Scolmare l’acqua in eccesso si è resa l’unica soluzione possibile per il Fereggiano: alla copertura del torrente, realizzata nel corso degli anni per ricavare spazi da destinare all’urbanizzazione del quartiere, è stata affiancata da una progressiva riduzione dell’alveo, che è passato da una sezione di 3,90 metri di altezza per 9 metri di ampiezza, fino ad arrivare a 3,3 metri per 6 metri (con volta a botte).
A dieci anni dal quel novembre del 2011 qualcosa è stato fatto, sottolineano i geologi, e non solo dal punto di vista delle opere: «Si sta lavorando molto dal punto di vista della cultura del rischio – ricorda Francesco Faccini, docente del Distav – Il Comune in questi anni sta facendo molte attività di formazione e informazione. Ma è un elemento su cui bisogna ancora lavorare. Le persone che hanno perso la vita nel civico 2b di via Fereggiano, una mamma con le sue due figlie, avevano pensato di trovare rifugio nella loro abitazione. Ma la loro abitazione era a un piano seminterrato: non hanno avuto la percezione del rischio, perché sarebbe bastato salire di uno o due piani e non sarebbe successo nulla. E questo è purtroppo un fenomeno ricorrente».
In questa direzione, secondo Luigi Perasso, consigliere dell’Ordine regionale dei geologi della Liguria, alcuni passi avanti sono stati fatti anche dal punto di vista della protezione civile e di autoprotezione civile: «Il cittadino non deve più aspettare che siano le autorità ad avvertirlo di come si sta evolvendo l’allerta meteo. Dal punto di vista normativo si sta facendo, ma si dovrebbe continuare a fare di più: le cartografie sono fotografie statiche di un versante o bacino, ma dovrebbero essere aggiornate continuamente». C’è da dire che la normativa non aiuta anche l’attività di manutenzione di versanti e alvei, lasciando ampi margini di interpretazione dal punto di vista delle competenze: «Spesso – precisa Perasso – accade che siano le amministrazioni comunali a intervenire e poi eventualmente chiedere le spese ai privati proprietari dei terreni. Ma è difficile eseguire opere di manutenzione costanti nel tempo».
Qui il nostro analogo approfondimento sui luoghi più significativi del tratto terminale del Bisagno, 50 anni dopo la grande alluvione del 1970.