La Banca centrale statunitense ha confermato la buona crescita economica da oltre 9 anni e la conseguente prosecuzione delle politiche monetarie restrittive: per la prossima riunione del 18-19 dicembre è previsto un aumento di 25 punti base dei tassi di riferimento, dal range attuale 2,00%-2,25% al nuovo range 2,25%-2,50%, nonché per il 2019 quattro ulteriori interventi al rialzo, sempre da 25 punti base ciascuno, e un ulteriore, sempre da 25 punti base, entro il primo trimestre del 2020, per un range target finale che potrebbe, così, arrivare al 3,50%-3,75%.
In questo contesto, il rendimento dei titoli governativi (Treasuries) è salito fino al 2,917% per la scadenza a 2 anni e al 3,261% per quella a 10, provocando a più riprese nella seconda decade di ottobre violenti ribassi giornalieri (dal 3% al 4%, record negativi giornalieri dal 2011) per i tre principali indici azionari statunitensi (Dow Jones, S&P 500, Nasdaq), che hanno così pressoché azzerato i guadagni da inizio anno.
Inevitabile il contagio a tutte le altre piazze finanziarie sviluppate, dall’Europa all’Asia, passando per Cina e Giappone (relativamente meglio gli indici azionari e obbligazionari delle aree Emergenti, che, però, erano già pesantemente calati nei mesi estivi). Gli operatori temono la concorrenza dell’aumentato rendimento del Treasury a 10 anni rispetto ai dividendi azionari previsti per il 2019: anche se, delle 240 società che hanno già diffuso i propri risultati societari del III trimestre, l’82,50% ha sorpreso al rialzo le previsioni (fonte Bloomberg), non tutte le big, soprattutto del comparto tecnologico, hanno convinto gli investitori; inoltre, gli analisti cominciano a fare i conti di quanto le vendite internazionali siano state ridotte dai dazi (al momento, i dazi statunitensi colpiscono circa 250 miliardi di dollari di prodotti cinesi, mentre quelli cinesi coinvolgono circa 110 miliardi di prodotti statunitensi, ma, più volte, il presidente Trump si è detto propenso a rincarare la dose, in caso di esito non soddisfacente dei prossimi incontri sul tema con le Autorità di governo cinesi) e i margini di profitto erosi dagli aumenti degli ultimi mesi dei costi del lavoro e delle materie prime saranno, pertanto, attentamente monitorati i dati del mercato del lavoro statunitense di ottobre che usciranno questo venerdì 2/11 (previsti 191 mila nuovi posti di lavoro dal comparto non agricolo e un lieve aumento del tasso di disoccupazione dal 3,7% al 3,8%, con un incremento del costo dei salari orari del 3,1% rispetto al +2,8% registrato in settembre).
La prima stima del Pil del III trimestre degli Stati Uniti evidenzia una crescita del 3,5%, migliore delle attese degli analisti (3,3%) e al di sopra del potenziale di crescita di medio periodo (3%), ma in deciso ridimensionamento rispetto al +4,2% del secondo trimestre.
La Banca centrale europea ha mantenuto invariati la valutazione dei rischi (definiti “bilanciati”) di contrazione economica, i tassi d’interesse ufficiali e l’ampiezza del suo programma “Quantitative Easing” ovvero di acquisto selettivo di titoli governativi e societari (che proseguirà al ritmo di 15 miliardi di euro al mese fino al 31 dicembre 2018). Mentre in Germania (Baviera e Assia) si consumano l’ulteriore ridimensionamento dei socialisti (Spd) e la cocente sconfitta dei cristiano-democratici (Cdu e Csu) della premier tedesca Angela Merkel, a enorme clamoroso vantaggio del nuovo movimento dei Verdi, ormai candidati a partito di maggioranza del prossimo governo (le ultra-destre populiste e anti-euro salgono, ma assai meno del previsto), l’attenzione degli investitori è sempre più rivolta verso le vicende interne del governo italiano, alle prese con l’ennesima ridefinizione (entro lunedì 12 novembre) della manovra di bilancio 2019, dopo la scontata bocciatura da parte della Commissione Europea e delle due agenzie internazionali di rating Moody’s (che ha abbassato il voto sul debito sovrano italiano all’ultimo gradino disponibile della soglia investment grade ovvero BAA3 con outlook, però, stabile) e Standard & Poor’s (che ha, invece, mantenuto il rating a BBB, due gradini sopra il livello i.g., ma anche abbassato l’outlook a negativo), a causa dei numeri troppo sbilanciati dal lato della spesa per assistenza/sussistenza rispetto a quelli per investimenti pro-crescita e delle previsioni poco credibili di crescita economica a +1,5% per il 2019 (a maggior ragione, dopo l’ultimo dato Istat di crescita nulla nel III trimestre e acquisita pari all’1% fino al 30/09, con conseguente revisione al ribasso della precedente previsione di +1,4% a +1,2%).
Nell’attesa, il principale indice azionario della Borsa di Milano, il Ftse Mib, ha testato il 24 ottobre scorso un nuovo minimo dell’anno poco sotto i 18.500 punti, con i titoli bancari particolarmente bersagliati dalle vendite a causa della risalita dello spread (differenziale tra i tassi di rendimento del Btp decennale e dell’omologo governativo tedesco, il Bund) a ridosso dei 320 punti base (ma in ottobre si è arrivati a 340, per un rendimento del Btp decennale al 3,78%, massimo dal 2014, poi leggermente ridimensionatosi in area 3,30%-3,50%, ma ben lungi dall’essersi stabilizzato).
La strategia di allocazione del portafoglio
Nonostante la ricerca di un nuovo equilibrio sul fronte dei tassi d’interesse, soprattutto, statunitensi, sia ancora in corso, gli esperti continuano a favorire l’esposizione azionaria, che, per altro, grazie alla più recente correzione dei corsi, presenta valutazioni (multipli) più attraenti (meno cari); operativamente, il suggerimento degli esperti di costruire le posizioni con gradualità, ricorrendo ai cosiddetti piani di accumulo o, comunque, a investimenti programmati/mirati nelle fasi di maggiore ribasso/volatilità/avversione al rischio. Tuttavia, a causa della fase ormai matura del ciclo economico statunitense, ci attendiamo ritorni inferiori alla media storica in un contesto di volatilità di fondo superiore a quella media degli anni passati.
Poiché il percorso di normalizzazione (aumento) dei tassi d’interesse è ormai avviato negli Usa ed è destinato a iniziare in Eurozona a partire dalla seconda metà del 2019, gli esperti preferiscono un approccio difensivo per le obbligazioni governative e societarie dei Paesi sviluppati, rimanendo sotto-pesati ovvero favorendo le scadenze più brevi (in deroga, continuiamo a guardare con favore il comparto delle obbligazioni bancarie subordinate dell’Eurozona, i cui elevati rendimenti medi permangono ancora interessanti, ancorché a fronte di un elevato rischio/volatilità dei corsi); per le obbligazioni dei Paesi Emergenti restiamo neutrali, ma pronti a cogliere le opportunità offerte dagli attuali elevati rendimenti, non appena si sarà stabilizzato il cambio del dollaro statunitense nei confronti delle divise di tali Paesi e raggiunto un nuovo equilibrio sul fronte del commercio internazionale (fine guerra dei dazi).
Neutrali verso le valute, riconoscendo al dollaro statunitense (in modo particolare, dati la forza della sua economia e gli elevati rendimenti delle sue obbligazioni governative) e allo yen giapponese la valenza di protezione nelle fasi di maggiore volatilità/avversione al rischio sui mercati e di diversificazione del portafoglio.
Nel medio termine, l’espansione economica globale e la ripresa delle aspettative d’inflazione sostengono i prezzi delle materie prime, ma nel breve termine le sanzioni statunitensi all’Iran (in vigore dal prossimo 4 novembre) e alcune persistenti difficoltà e/o carenze estrattive da parte di Libia e Venezuela, potrebbero recare alcune tensioni dal lato dell’offerta e, conseguentemente, sui corsi del greggio.