Un nuovo sindaco che abbia un solo programma: far funzionare la città nei servizi essenziali, convinto che non sa uno sminuirsi. Una persona che sappia non aver paura, anzi avere il coraggio dello scontro nell’interesse del bene comune. Che faccia imparare a memoria il programma a quei partiti che lo sosterranno, con l’impegno di accettarlo o modificarlo prima dell’elezione, perché poi ci si lavora e basta. Che conosca il vero significato del termine solidarietà, ormai utilizzato per giustificare ogni cosa, anche lo stare comodamente a bivaccare sui diritti di chi i doveri già sopporta e sui sacrifici altrui. L’essere giusti nel far applicare le leggi vigenti non è di destra né di sinistra: è giusto e basta.
Quanti sindaci si sono succeduti contorcendosi sulle problematiche del trasporto pubblico e sulla gestione dei rifiuti? Quanti hanno avallato capricci di categoria, quando invece avrebbe fatto innanzitutto l’interesse di quelle categorie e di tutta la cittadinanza mettendosi di traverso a richieste impossibili? De “la fiducia come bene comune”, che è nei termini, una rivoluzione, ne parlò a ottobre Vittorio Pelligra, professore dell’Università di Cagliari, al teatro degli Emiliani a Nervi. La fiducia che va e viene in periodi sempre più brevi, tante volte dettata dagli stati d’animo del momento.
Resta il fatto che enti statistici hanno rilevato che nel solo periodo tra il 2011 ed il 2012 il 65% dei cittadini italiani ha perso fiducia nelle istituzioni, il 27% è rimasto fedele al concetto e solo l’8% lo ha visto aumentare. Le percentuali variano oggi così rapidamente che è difficile riuscire a muoversi tra gli stati d’animo delle persone, soprattutto quando vanno a votare.
A Genova la situazione non è così diversa che nel resto d’Italia. Ma la ex Superba, di stati d’animo, vive da sempre, ammalata di “maniman” e abituata a prendere le decisioni nel silenzio delle singole persone, esternamente dissimulato dal mugugno continuo per rendersi invisibile quando le decisioni sono state prese. Fiducia bassa, spesso anche per poter solo dire: “io l’avevo detto”. Ma se questa manovra funzionasse, stiamo negli esempi, l’elezione del prossimo sindaco di Genova potrebbe avere, in termini politici, temi diversi dall’economia. Quell’economia che, tanto, per quanto si dica, da Palazzo Tursi sono decenni che non fa più sosta. Anche perché a Genova sono decenni che le scelte economiche che contano si subiscono e basta.
Immaginiamo, dunque, un candidato sindaco che dalla propria campagna elettorale elimini i temi sui quali, peraltro, non ha alcun ascendente o potere. Un candidato sindaco che non parli di ridare lavoro ai cittadini tramite Ilva, Fincantieri, Leonardo Finmeccanica o che non si trastulli in voli pindarici con richiamo all’ alta tecnologia con il rilancio degli Erzelli.
Pensiamo a un candidato sindaco che nel proprio programma, a partire dai primi cento giorni, metta solo punti dedicati alla città e ai cittadini, punti misurabili da tutti, visibili quotidianamente. Esempi a caso: entro 100 giorni si eliminerà l’abitudine di salire sugli autobus dalle porte dedicate alla discesa. Entro tre mesi i letti dei torrenti verranno trasformati da jungla a letti da torrente. Entro 100 giorni si inizieranno a impedire agli immigrati – progressivamente ma in maniera visibile – le umiliazioni di chiedere la questua agli angoli della città, perché impegnati a imparare l’italiano o a svolgere lavori socialmente utili, perché per questo sono già parzialmente remunerati con il contributo alla sussistenza a Genova. Un rapido impegno, ma forte, perché le scuole vengano riaperte al sabato, visto che non è pensabile che i ragazzi delle superiori facciano sette ore di aula al giorno, bruciandosi la possibilità di studiare, fare sport, musica o quello che desiderano al pomeriggio. Infine un atto deciso a liberare dal degrado, mantenendovi poi ordine e armonia, porzioni quantificate ogni mese di aree cittadine dove si vive nel e di degrado.
Un progetto elettorale per la città. Applicato in maniera dogmatica e misurabile. Contro tutto e tutti, compresi quelli che oggi questo ordine cittadino lo reclamano e poi, una volta ottenuto, lo riterrebbero eccessivo per i propri comodi. Ragionare sui numeri a tavolino, osservando fuori dalla finestra una città che cambia. Senza guida apparente.
I dati e le percentuali economici e sociali, che non sono altro che i risultati dei comportamenti e delle azioni di un territorio, fanno ben intendere quanto tutta la politica, e forse questo è un caso di studio a livello mondiale, più che proporre soluzioni – che non potrebbero che essere durissime – preferisce lasciar fare alla natura. Vista l’età media, si affida alla Grande Falce per risolvere i problemi dei vecchi. Per quanto riguarda i giovani, vige il poi vedremo. Così ben riassunto dalla chiusura delle scuole superiori al sabato perché mancava un milione di euro per il riscaldamento. I dati demografici qui si urtano con quelli economici e finanziari come in nessuna altra parte del Paese. Le successioni ereditarie, una dopo l’altra, portano fuori città gran parte dei patrimoni. Quanto dipende dal non avere fiducia nel presente e nessuna certezza in un futuro che nemmeno si immagina più?
Poi ci sono le periferie geografiche e logistiche. Il caso di Sampierdarena e relativo entroterra è eclatante. Dirlo, forse è sbagliato, ma sembra che negli anni sia stata “scelta” per essere il punto di raccolta di flussi migratori incontrollati, di problematiche al momento apparentemente non risolvibili. Dire che la scelta sia stata freddamente politica magari è di nuovo sbagliato. Ma intorno a quella delegazione di muri e barriere ne sono stati costruiti in abbondanza, dove ogni mattone e ogni metro di filo spinato sono stati impastati e fabbricati utilizzano disorganizzazione, faciloneria, impreparazione, poca volontà e procrastinazione.
Dire che la città è in rapida disgregazione non è pessimismo. È una realtà per ora evidente e incontrovertibile. Sostenuta da dati veri, amari, che peggiorano. E questa condizione si legge nei dati controversi sull’occupazione: dice Bankitalia che in base agli ultimi dati rilasciati dall’Istat, tra il 2011 e il 2014 (con un certo dispiegamento anche nel bienni 2015/16) il reddito disponibile in termini reali delle famiglie liguri si è ridotto del 6,6%, a fronte di un calo del 5,9% a livello nazionale. Così come avvenuto nel complesso del Paese, in termini nominali il calo ha riguardato i redditi da lavoro autonomo e da proprietà, a fronte di un aumento delle prestazioni sociali e degli altri trasferimenti netti. E se “i redditi da lavoro dipendente sono cresciuti leggermente”, certo altrettanto non si può dire del gettito pensionistico, che in Liguria ha una rilevanza percentualmente maggiore di quasi tutte le altre regioni. Ovviamente nel periodo 2011-2014 l’andamento negativo del reddito disponibile si è associato a un calo dei consumi effettuati in regione che, in base ai dati dei conti territoriali dell’Istat, sono scesi del 6,3% (-6,1% in Italia; valori al netto della spesa dei turisti stranieri). Dunque le varie “vision” politiche e economiche degli ultimi anni non hanno prodotto che questo.