Quattro marchi, sette strutture e circa 20 mila metri quadrati di nuova superficie di vendita commerciale: uno scenario giudicato apocalittico dal piccolo commercio, quello che esce dalla somma di quanto si stia delineando a proposito delle nuove operazioni immobiliari all’orizzonte a Genova.
Le nuove aperture di cui si parla
Carlini, Leroy Merlin, 10.000 mq; Champagnat, Conad, 1.000 mq; Guglielmetti, Coop e altri, 5500 mq; Palmaro, Coop, 650 mq; San Benigno, Esselunga, 3000 mq; Sestri Ponente, Esselunga, 3000 mq; via Piave, Coop, 1000 mq. Non si sono considerati Hennebique, Ponte Parodi, il Waterfront di Levante, senza dimenticare le recenti aperture, come la Basko di Molassana.
«Credo ci sia la necessità di definire veramente, e in un’ottica di medio-lungo periodo, quali siano le priorità per la città. Se si voglia cioè un tessuto urbano sano, vitale e vivibile, o se desideriamo la desertificazione dei quartieri a seguito della chiusura degli esercizi di vicinato, salvo poi piangere lacrime di coccodrillo una volta che il danno è fatto e difficilmente reversibile», riflette Massimiliano Spigno, presidente di Confesercenti Genova.
Spigno lancia l’idea di dare vita a degli “Stati generali del Commercio” «per definire, con tutti i player e le istituzioni, quali siano davvero i bisogni della popolazione genovese, quali gli spazi disponibili senza stravolgimenti di destinazione d’uso, cosa possa reggere o meno il tessuto esistente e quali piani d’investimento delle varie realtà siano compatibili con questo contesto, piuttosto che continuare a seguire uno stillicidio di varianti urbanistiche dalle alterne fortune e una guerra di posizione all’ultimo metro quadrato, vivendo in balia di interessi particolari anziché del bene collettivo».
Per il presidente di Confesercenti Genova servono fortissimi segnali di discontinuità con il passato: «Non vogliamo più insediamenti della grande distribuzione spacciati come la panacea di tutti i mali, dalla valorizzazione dell’immobile pubblico, alla manutenzione dell’impianto sportivo. Proviamo anzitutto a coinvolgere nelle operazioni immobiliari commerciali il tessuto imprenditoriale dell’area, evitando di perdere posti di lavoro “buoni” a favore, nella migliore delle ipotesi, di nuovo precariato. Evitiamo di spegnere altre luci e abbassare altre saracinesche, alimentando un sistema che sa più d’immobiliare, che di imprenditoriale».