Alifood è l’azienda genovese che collega le pmi dell’alimentare italiano con i mercati esteri più lontani, quelli asiatici, latinoamericani, mediorientali. I più difficili da raggiungere per chi dispone di quattro-cinque dipendenti (circa l’87% dei fornitori di Alifood) e sa fare benissimo un formaggio o una salsa ma si trova in difficoltà quando deve affrontare questioni di carattere burocratico, sanitario, doganale. E anche trovare il cliente giusto e capire le sue esigenze non è facile per una piccola impresa, che spesso non dispone delle professionalità e delle tecnologie per interpretare la quantità enorme di dati, di informazioni che pure sono disponibili, sul web e nei canali specializzati.
A tutto questo provvede Alifood: il cliente chiede un certo tipo di prodotto e l’azienda genovese lo va a prendere direttamente dal produttore occupandosi di tutta la catena del valore, controllando la qualità dal campo o dalla stalla all’arrivo in tavola. Un processo vantaggioso non solo per il piccolo produttore italiano ma anche, all’altro capo della filiera, per i clienti stranieri che si trovano ad avere a che fare con una sola controparte anche per numerosi prodotti. E li ottengono come li vogliono: un Made in Italy genuino ma compatibile con le norme doganali e sanitarie e la cultura del loro paese.
Questo si chiama fare trading, e Alifood è una general trading company: non vende prodotti ma contatti.
Contatto in questo caso va inteso nel senso più ampio, vuol dire incontro, relazione, rapporto ma soprattutto e prima di tutto conoscenza delle specificità e delle esigenze della controparte.
Ce lo spiega Vittorio Lamba Doria, ceo di Alifood.
L’azienda è nata nel 1997 – fondata da Doria e altri quattro imprenditori ai quali poi si sono avvicendate altre quattro aziende genovesi – per fare trading di commodity, principalmente di cacao e caffè, in partnership con il gruppo giapponese Itochu e si occupava di food solo per il Giappone. «Poi i giapponesi – racconta Doria – si sono tirati indietro per non avere problemi con la loro agenzia milanese, ma siamo rimasti in ottimi rapporti. E da loro abbiamo imparato a fare trading e abbiamo esteso l’attività al food italiano. Ora il caffè riguarda solo una minima parte della nostra attività. Abbiamo fatturato oltre 7 milioni nel 2022, siamo una decina di persone».
Fare trading, in pratica, che cosa comporta?
«Noi non vendiamo un prodotto. Non lavoriamo con un magazzino. Lavoriamo tutto sul venduto. Andiamo a cercare le persone che in un determinato momento sono interessate a un prodotto. E interpretiamo le loro aspettative.
Come si fa a soddisfare le esigenze di clienti che appartengono a culture molto diverse dalla nostra?
«Innanzitutto bisogna essere curiosi, avere coraggio e avere voglia di mettersi in gioco cercando di individuare quei mercati che sono più interessati ai nostri prodotti. E capire cosa vogliono. Un’impresa può offrire prodotti eccellenti ma per avere successo non solo deve conoscere le caratteristiche del paese in cui intende esportare, deve capire la richiesta di quel mercato. I mercati sono molto diversi l’uno dall’altro. Il prodotto quindi di volta in volta deve essere fatto comprendere, raccontato. E adattato alle regole e alle normative del paese di destinazione. Per esempio: sono appena tornato da Singapore, dove una grossa catena sta cercando due prodotti fatti come li vuole lei. Proporremo la tradizione italiana adattandola alle esigenze del cliente. Così bisogna fare per esportare il Made in Italy alimentare. Il caso classico è il pesto. Non lo possiamo vendere con i pinoli in Giappone. Perché i pinoli hanno un carico batterico molto alto secondo le autorità sanitarie giapponesi. In Giappone, quindi, si sostituiscono i pinoli con le noci, gli anacardi. Alcuni paesi fanno togliere l’aglio, altri non vogliono il parmigiano. Bisogna adattare il prodotto alle esigenze sia di gusto sia sanitarie sia doganali dei diversi paesi. E renderlo comprensibile. Se oggi presenti un piatto di trenette o di troffie con fagiolini e patate a un giapponese vieni preso per pazzo. Per lui il pesto è una basil sauce, una crema di basilico. D’altra parte il sushi che mangiamo qua non è il sushi giapponese».
Però il made in Italy ha le sue caratteristiche.
«Certo, bisogna adattarsi ma senza mai snaturare il prodotto. Se mi dicessero: voglio un pesto di spinaci non lo darei. È chiaro che il Made in Italy è apprezzato a livello internazionale, oltre che per la qualità, per la sua unicità. Ma non possiamo proporlo con superficialità, basandoci solo sul nome o sulla fama. Bisogna saper ascoltare il mercato. Ed essere pronti a innovare. I moderni sistemi di comunicazione e promozione consentono di valorizzare e promuovere l’unicità della nostra produzione, le nuove metodologie di trasporto e conservazione del prodotto ci permettono di venderlo in mercati lontani conservandone la freschezza».
Quali sono i vostri prodotti più importanti?
«Le quattro grandi commodity italiane: pasta, pomodoro, olio d’oliva e, soprattutto, latticini. Anche vini, ma i più importanti, sono questi quattro. I latticini contano per il 60%: parmigiano, mozzarella, gorgonzola… Il grosso del nostro prodotto è surgelato e fresco ».
I clienti chi sono?
«Tutti. Noi lavoriamo con importatori, distributori, catene di ristoranti, supermercati, e catene di grocery shops. Non abbiamo agenti, lavoriamo con contatto diretto. Andiamo diretti sul cliente. Siamo in dieci».
Come avviene il controllo della qualità?
«C’è un controllo strettissimo del prodotto, sia di quello di altissima qualità sia del prodotto di qualità intermedia sia del prodotto di prezzo. Noi italiani abbiamo un sistema di controllo di qualità e di prodotto molto attento. Ed è la nostra forza. C’è estrema attenzione alla tracciabilità, alla trasparenza, al prodotto del territorio, altrimenti non si venderebbe il prodotto come lo stiamo vendendo in questo momento. Gli americani, è vero, con l’italian sounding fanno 70 miliardi di dollari ma con prodotti di cui non si conosce la provenienza, il made in Italy alimentare esporta più di 60 miliardi di euro l’anno. La crescita è stata forte negli ultimi dieci anni e un ruolo decisivo lo ha giocato l’expo di Milano. Ancora negli anni 90 a Tokio i ristoranti italiani erano una decina. Oggi sono circa 1800. Da parte nostra, noi di Alifood controlliamo in maniera maniacale tutta la supply chain, molte volte non aspettiamo che ci consegnino il prodotto, andiamo a selezionare il prodotto o addirittura le sementi. Dal campo alla tavola controlliamo tutto».
Quali sono i vostri mercati principali?
«Non vendiamo in Europa e negli Stati Uniti per scelta. Andiamo in Asia, in tutto il Sud Est asiatico, in tutto il Medio Oriente, in Sud America e nell’Est Europa. Quest’anno lavoriamo in 19 paesi diversi».
I mezzi di trasporto più impiegati?
«Le navi, sicuramente. Nave e aereo, molto più dei camion. Perché non vendiamo in Europa. Andiamo lontano».
Come vi rapportate con i produttori?
«Lavoriamo con circa 122 produttori regolarmente. E il prodotto lo facciamo in funzione della richiesta del mercato. Se un’azienda sta cercando un prodotto noi andiamo a individuare il produttore che è giusto per questa azienda, per il tipo di prodotto, per la quantità di prodotto che richiedi e per la frequenza degli imbarchi».
Principali concorrenti?
«In Italia non c’è qualcuno che fa il nostro lavoro. Noi lo abbiamo mutuato dal trading giapponese. In Italia ci sono agenti che rappresentano case di esportazione, ci sono distributori specializzati in alcuni prodotti, ma non c’è una general trading company. Ci siamo noi che abbiamo imparato dai giapponesi. Se produco solo caffè, quando vado al centro acquisti di un supermercato non posso che vendergli caffè. Mentre se si presenta la Nestlè ha migliaia di prodotti da vendergli. Ha quindi una forza contrattuale totalmente diversa. Ma come general trading company ho molte più carte da giocare. Un esempio recente: a Singapore ero andato per parlare di pasta, di punto in bianco è venuto fuori un discorso totalmente diverso».
Prospettive?
«Il Made in Italy si afferma sempre più, è un fenomeno positivo che fa guardare con ottimismo al futuro ma la crisi nel Mar Rosso sta producendo effetti negativi. Le navi che passavano per Suez per collegare l’Oriente ora sono obbligate a circumnavigare l’Africa, con evidenti aumenti dei noli e dei tempi di consegna. Sono più penalizzati gli importatori in Europa rispetto agli esportatori verso Est ma anche per noi si profilano delle difficoltà: c’è il rischio che i costi della logistica rendano meno competitivi i nostri prodotti».