Le crisi bancarie (molte negli ultimi anni in Italia) lasciano sempre conseguenze e strascichi gravi e diffusi, colpendo duramente risparmiatori, obbligazionisti, clienti (con disservizi o riduzioni del servizio).
Tipicamente le vittime principali di queste situazioni sono gli azionisti, piccoli e grandi. Anche gli obbligazionisti subordinati hanno sofferto in maniera consistente, soprattutto nei primi eventi (la crisi delle quattro banche regionali nel 2015). Queste due categorie hanno indubbiamente pagato il conto più amaro di fenomeni venuti alla luce spesso improvvisamente, e a volte inaspettatamente.
Il caso Carige ne è la conferma: gli azionisti che hanno partecipato stoicamente alle ricapitalizzazioni del 2014, 2015 e 2017, versando nelle casse della banca genovese quasi 2.2 miliardi di euro, si trovano ora con in mano un pugno di azioni (circa il 7% del totale) addirittura ancora non quotate, e quindi non disponibili.
Eppure ci sono soggetti che da queste crisi, e da quella Carige in particolare, sono invece usciti indiscutibilmente più ricchi, molto più ricchi.
Consulenti e banche di affari, innanzitutto: nell’aumento di capitale concluso a dicembre 2017, a fronte di 544 milioni incassati, la banca ha dovuto versarne quasi 45 alle banche del consorzio di garanzia (eppure praticamente tutto l’aumento di capitale era garantito altrimenti…) e oltre 7 per “attestazioni, consulenze e pubblicità”. Anche sotto la gestione commissariale, quasi 22 milioni spesi per consulenze e circa 7 per realizzare un aumento di capitale (pur già integralmente garantito dal Fondo Interbancario, e pertanto senza alcuna necessità di consorzio di garanzia…).
Ma nel caso di Carige ci sono tre controparti che possono davvero festeggiare, a suon di decine di milioni, gli effetti della crisi.
La prima è il fondo Apollo, che comprò le compagnie assicurative nel 2015. Grazie a una ampia, tombale e rotonda transazione firmata dai commissari a più riprese lungo il 2019, questo fondo ha recuperato dalla banca in piena crisi la bellezza di oltre 122 milioni.
E, della serie “non siamo genovesi”, si è compensato il disturbo del fondo americano rimborsandogli anche 1 milione di costi legali. Addirittura si scoprirà poi nel 2020 che la banca è stata obbligata dai commissari a rimborsare ad Apollo quanto eventualmente Apollo dovesse risarcire alla banca qualora condannata in giudizio se il giudizio fosse continuato!
Il fondo Apollo ottiene quindi – da una Carige in piena crisi – quasi 130 milioni complessivi.
La seconda controparte è Credito Fondiario, che dapprima nel 2018 sborsa soltanto 25 milioni per acquistare da Carige un ramo aziendale promesso in acquisto a 31, poi ottiene quasi 20 milioni di ristorni da Carige appena dopo la vendita – a fine 2017 – di 1.2 miliardi di crediti in sofferenza, e infine dai (soliti) commissari conseguirà 24,5 milioni di penali a fronte della cancellazione di un rapporto di gestione di crediti in sofferenza che – sarà una delle condizioni dell’operazione del Fitd – verrà in buona parte riattribuito da Amco a Credito Fondiario, successivamente alla cessione di tali crediti da Carige ad Amco.
Credito Fondiario può quindi contare su un vantaggio netto immediato, dalla crisi Carige, di oltre 50 milioni, variamente ripartiti. E infatti il suo bilancio 2019 ne darà riscontro, chiudendo con 41 milioni di utile netto rispetto ai 29 dell’anno precedente…
Ultima controparte “favorita”, in ordine di tempo, è quindi Amco. Come risulta da una recente analisi di G. Paoletti su La Stampa, e dai dati preliminari del bilancio 2020, questa società pubblica (interamente detenuta dal Ministero dell’Economia) ha comprato a fine 2019 ben 3,1 miliardi di crediti deteriorati (in maggioranza “incagli”, non “sofferenze”), traendone vantaggi assai consistenti.
I ricavi sono più che raddoppiati, grazie a quei crediti, e per quasi il 40% (quasi 80 milioni! importi che, se i crediti non fossero stati ceduti, avrebbe realizzato Carige…) sono dovuti appunto a posizioni ex Carige. L’utile netto di Amco è quasi raddoppiato rispetto al 2019, chiudendo con un risultato di 76 milioni contro 42 dell’anno precedente.
Tutto ciò è possibile evidentemente anche per il ridotto prezzo pagato da Amco a Carige (sia pur se uno dei migliori conseguibili sul mercato, ma indubbiamente di mercato, avendo passato le valutazioni della Direzione “Competition” della Commissione Europea), e infatti se i crediti comprati da Carige pesano per solamente il 7% del totale dei crediti gestiti nel 2020 da Amco, le rendono per ben il 37% dei ricavi complessivi.
Sono quindi quasi 80 milioni i ricavi trasferiti da Carige ad Amco per effetto delle operazioni collaterali all’amministrazione straordinaria.
Per questo trasferimento, si ricordi, Carige ha sostenuto oltre 450 milioni di perdite nel periodo di commissariamento, ai quali vanno aggiunti circa 200 milioni di accantonamenti addizionali effettuati grosso modo sullo stesso portafoglio nel 2018.
Al vantaggio ottenuto da Amco di 80 milioni l’anno, quindi, si contrappone un sacrificio per Carige di circa 650 milioni.
Sono numeri enormi per una banca regionale pur di rilevanti dimensioni.
Numeri che fanno riflettere molto sull’effettiva equità che si riscontra, in concreto, nelle operazioni di salvataggio bancario condotte sotto lo stretto monitoraggio delle autorità di vigilanza.
Ma la riflessione è nel caso di Carige ancora più sofferta e profonda, perché – diversamente dalle altre crisi bancarie – in Carige i piccoli e grandi azionisti hanno sempre risposto agli “appelli” di aumento del capitale. La fiducia di costoro è stata tradita non tanto dagli esiti delle recenti operazioni commissariali, quanto forse dalla dispersione di ingentissime risorse a favore di poche, individuate, controparti. E di queste evidenze, purtroppo, nessuno – né in campo penale né in campo civile – si occupa e probabilmente si occuperà, rispondendo a logiche che purtroppo sembrano connaturate al sistema finanziario.