Non c’è pace per il sistema bancario italiano. Nello scorso decennio, le banche italiane hanno dovuto affrontare una pesante ristrutturazione a seguito della grande crisi e adesso, oltre a una potenziale nuova ondata di npl a seguito della crisi post-Covid-19, devono affrontare pesanti ingerenze da parte della politica nazionale che ne vuole determinare le future scelte strategiche.
Partiamo dall’ultimo importante avvenimento in ordine temporale nel mondo bancario, le dimissioni di Jean Pierre Mustier dalla direzione di Unicredit, carica che deteneva dal 2016. Perché il manager francese ha deciso di andarsene? Secondo alcuni perché ritenuto colpevole agli occhi di parte del board amministrativo di non aver accettato la proposta del Mef di incorporazione di Monte dei Paschi all’interno del Gruppo. Secondo altri, come ha detto lo stesso Mustier, «la politica non c’entra», motivo del contrasto sarebbe stata il rifiuto da parte del cda della banca public company di una subholding delle partecipazioni estere proposta dall’amministratore delegato.
In ogni caso sembra che una parte del Governo abbia pensato a Unicredit per il Monte dei Paschi, partecipata al 68% dal Mef che ne deve cedere obbligatoriamente le quote entro il 2021. Ed è certo che alla privatizzazione della banca senese si oppongono una parte del Pd, M5S e i sindacati. Tanto che la proposta del Governo di facilitare la cessione a privati di Mps, gravata da circa 9 miliardi di pendenze potenziali e con solo 1 miliardo di coperture proprie, di portare in dote alla fusione altri 2,5 miliardi è stata depotenziata da M5S. I pentastellati hanno presentato un emendamento alla Legge di Bilancio 2021 per limitare questa dote a 500 milioni, rendendo quindi più difficile l’intervento di un soggetto privato, che sia Unicredit o un altro.
Non si tratterebbe quindi solo di un gesto di puro sfregio nei confronti delle banche, coerente con la demagogia grillina, ma del tassello di un disegno più complesso (e inquietante).
La strategia di una parte del Governo rappresentata dal Movimento 5 Stelle sembrerebbe quella presentata dal segretario generale di Fabi Lando Maria Sileoni, ovvero il mantenimento in mani pubbliche di Mps che sarebbe però da aggregare ad altre realtà bancarie, ovvero:
– Popolare di Bari, salvata in corner dallo Stato nel 2019 ed ora detenuta al 97% dal Microcredito Centrale, emanazione di Invitalia, finanziaria governativa controllata da Domenico Arcuri, da noi conosciuto come controverso commissario all’emergenza Covid;
Banca Carige, la banca ligure in profondo travaglio dal 2012 e ora risanata e di proprietà all’83% del Fondo Interbancario, ovvero un consorzio delle principali banche italiane, e all’8,3% da Cassa Centrale Banca (Ccb), holding trentina che potrebbe assumere il controllo di Carige dal 2021.
Il disegno complessivo prevederebbe la creazione di un grande polo bancario nazionale a controllo prevalentemente pubblico da utilizzare come ulteriore braccio finanziario dello Stato nell’economia del Paese.
La posizione di Carige in questo disegno è la più complessa. Tra le tre banche nel mirino, la sua proprietà è a oggi esclusivamente privata. Il desiderio di includerla in questo progetto-Frankenstein risiede nel fatto che, nel caso in cui Ccb dovesse rinunciare all’acquisto del controllo della banca ligure per via della difficile situazione post-Covid, lo Stato potrebbe anche qui intervenire per rilevarne il pacchetto azionario di maggioranza incorporandone la dote nella nuova super-banca a controllo pubblico.
In realtà Carige, sgravata dalla massa di npl che rischiavano di affondarla (nel periodo più nero, tra il 2018 e il 2019, erano al 34% del totale crediti, ora sono sotto il 2%, ratio tra i più bassi in Europa) e più snella ed efficiente, se Ccb nel 2021 dovesse tirarsi indietro non avrebbe le difficoltà incontrate nel 2019 per trovare un partner.
Ma resta forte la voglia di una banca pubblica. Banca che, a questo punto, sarebbe un duplicato di Poste Italiane, appoggiando la sua esistenza a Cassa Depositi e Prestiti (Mef) e Invitalia. Si verrebbe dunque a creare la terza finanziaria pubblica, consolidando in qualche modo il trend di implementazione di dirigismo politico nell’economia.
Insomma, la voglia di Iri in questo Paese non è mai finita, non importa che l’esperienza ci abbia dimostrato quanto questi modelli siano fallimentari sul lungo periodo, perché tendenti alla clientelizzazione politica e non improntati per questo a criteri di economicità.
Nell’ultimo anno, il Governo Conte II ha già plasticamente dimostrato quanto intenda ottenere un ruolo di guidance all’interno dell’economia, e come sia disinvolto a servirsi delle finanziarie pubbliche, oltre che dello stesso Mef, per raggiungere i suoi scopi.
La prima società nazionalizzata dal Conte II in ordine di tempo è stata Alitalia, che agli inizi del 2020, dopo un’ulteriore iniezione di capitale pubblico da 3 miliardi (siamo saliti a 10 miliardi nel giro di 12 anni) è stata completamente acquisita dal Mef.
Verosimilmente, le prossime imprese che cadranno in orbita governativa saranno Atlantia, con cui è in corso di trattativa la cessione di Autostrade per l’Italia spa, e Ilva, su cui si sta trattando l’ingresso di Invitalia nel capitale al fianco di ArcelorMittal. Al termine di queste due operazioni, lo Stato controllerà il 40% della rete autostradale italiana e oltre la metà della produzione nazionale di acciaio.
Non occorre inoltre dimenticare chi, nel Governo, ha già chiosato l’ingresso dello Stato nel capitale di Tirrenia. A queste società si affiancano le partecipazioni storiche di Eni, Enel, Leonardo, Poste, e quasi tutte le aziende attive in ambito energetico sul territorio nazionale.
Cosa potrebbe accadere con la realizzazione di ulteriore terza finanziaria pubblica con accesso diretto ai risparmi dei cittadini, è facilmente intuibile. Le risorse economiche per imprimere una ulteriore spinta alle nazionalizzazioni sarebbero a dir poco imponenti. La nuova Iri, però, nascerebbe con un presupposto ben diverso da quella “storica”.
Negli anni Trenta, quando venne costituita l’Iri, l’obbiettivo era quello di salvare dalle grinfie della depressione segmenti strategici dell’industria italiana che altrimenti sarebbero stati destinati al fallimento e che avrebbero impedito all’Italia un decollo industriale nel dopoguerra. Finsider, Finmare, Stet, Finmeccanica e le altre finanziarie in orbita Iri avevano lo scopo di salvare e razionalizzare i comparti strategici dell’economia italiana. Non dimentichiamoci che stiamo parlando degli anni Trenta, anni in cui l’Italia non era assolutamente una nazione industrializzata e ricca, come del resto avrebbe dimostrato nel successivo conflitto mondiale. I capitali mancavano, mancava la domanda interna e la situazione finanziaria era estremamente precaria, gravata da politiche espansionistiche che poco si adeguavano alle reali possibilità del Paese. Eppure, in quegli anni, l’acciaio era un elemento strategico del sistema produttivo che andava salvaguardato, esattamente come l’industria meccanica e come il settore marittimo mercantile. Oggi, la situazione non appare più quella. I capitali in Italia sono presenti (lo dimostrano le recenti dichiarazioni di chi si sfrega le mani pensando di introdurre un’imposta patrimoniale – per finanziare cosa? Da usare come?), presto saremo anche inondati di prestiti europei – il famoso Next Generation Eu Plan – ma le priorità non sembrano cambiate. Non è detto che una produzione strategica negli anni Trenta sia strategica ancora oggi. Per essere strategico, un prodotto deve essere difficilmente replicabile, per via del suo processo produttivo che richiede sovente grandi apporti tecnologici e di capitali. Oggi, né l’acciaio, né il trasporto aereo, né il trasporto su gomma appaiono settori strategici. L’obbiettivo della nuova Iri sembra essere non quello di rilevare settori produttivi provati dalla crisi, sorge anzi il dubbio che la nuova finalità sia quella di gonfiare a sproposito il proprio attivo patrimoniale controllando un numero sempre crescente di imprese per finalità puramente elettoral-politiche, scaricando sulla collettività tutte le perdite d’esercizio che queste imprese, per la maggior parte marcescenti, produrranno.