Terzo Valico, Gronda, nuova diga del porto di Genova, potenziamento dei collegamenti ferroviari della Liguria: al centro del programma di Antonio Bettanini, genovese, classe 1946, candidato al consiglio regionale ligure con Forza Italia, le grandi opere, in costruzione o in attesa del via libera o allo stato progettuale, sono mezzi essenziali per consentire alla regione di rompere l’isolamento e agganciare la propria economia a quella delle aree più dinamiche in Italia e in Europa.
«Ho lasciato il consiglio comunale di Genova nel 1990 – dichiara a Liguria Business Journal – e allora erano in progettazione o in approvazione quella che si chiamava la bretella Voltri-Rivarolo, cioè la Gronda, il treno veloce Genova-Milano, il Terzo Valico; sono passati trent’anni e la sinistra non ha saputo fare uscire la città da un isolamento tremendo. Oggi, Covid a parte, l’economia italiana corre lungo il Frecciarossa e noi siamo fuori da tutto questo. Giustamente i primi passi di Toti hanno riguardato l’asse Genova-Milano e questa è una prospettiva molto importante per la città. Gli attuali sindaco e presidente di Regione hanno lavorato molto bene, anche in seguito alla tragedia di Ponte Morandi, per dare visibilità e peso alle richieste del territorio e rompere un isolamento trentennale, e d’altra parte in questa fase possono arrivare risorse da Roma e soprattutto dall’Europa. Penso che i prossimi cinque anni saranno importantissimi per la nostra regione. Tutto questo mi rende ottimista e mi ha spinto a tentare la sfida elettorale».
L’impegno di Bettanini in consiglio regionale, se verrà eletto, sarà quindi in primo luogo rivolto a favorire il compimento delle opere in corso di costruzione, come il Terzo Valico e il nuovo Nodo ferroviario di Genova, e ad avviare la realizzazione delle altre. Un impegno in un settore cruciale, dove il confronto tra parti politiche – con l’affermazione nel 2013 del Movimento 5 Stelle e la conseguente forte presenza in Parlamento dei grillini e poi la loro l’alleanza con il Pd – sta diventando guerriglia sulle infrastrutture. La vicenda della Gronda, giunta da tempo al termine dell’iter autorizzativo e in attesa fin dal primo governo Conte della firma del ministro, ne è un esempio. Ma il significato politico della candidatura di Bettanini (e di altri, in Liguria e in Italia, di formazione liberale e riformista) in Forza Italia va oltre questo dimensione, per assumere un significato politico che potrebbe anche risultare di un certo rilievo a livello nazionale, all’interno di uno schieramento di centrodestra egemonizzato da sovranisti-populisti, oggi molto diverso rispetto ai tempi in cui gli azzurri viaggiavano intorno al 30% dei consensi, Alleanza Nazionale non arrivava il 9% e la Lega Nord restava poco sopra il 4%.
Per capirlo diamo un’occhiata al suo curriculum.
Bettanini è stato, tra l’altro, stretto collaboratore di Claudio Martelli, Giovanni Conso, Franco Frattini, Giuliano Urbani, Maria Elisabetta Casellati. In gran parte esponenti di Forza Italia. Ma in politica, a suo tempo, era entrato impegnandosi in prima persona, e come socialista, nel Psi. «A un certo punto – spiega – ho scelto un percorso di vita in cui seguire la politica in parallelo, e mi sono occupato della comunicazione di politici quasi tutti di Forza Italia. Perché Forza Italia, che in sostanza era un movimento senza un’etichetta precisa, ha consentito, in questi anni, che potessero vivere sotto uno stesso tetto democratici, socialisti, repubblicani, liberali, radicali, e per noi socialisti, dopo il crollo della Prima Repubblica, è stata un porto, dove trovare riparo senza rinunciare alla propria identità, a differenza del partito dei nostri cugini ex comunisti, i quali non hanno mai smesso di criminalizzare la parte opaca del socialismo, che peraltro era condivisa dalle altre forze principali. Il finanziamento illecito ha toccato le tre forze principali».
Il Psi in cui era entrato Bettanini era quello dei primi anni della segreteria di Craxi, che cercava di ammodernare il Paese e stava sconvolgendo la politica italiana, in cui la sinistra, nonostante la fine del Fronte Popolare e la partecipazione dei socialisti ai governi di centro-sinistra, rimaneva egemonizzata, sul piano politico e soprattutto culturale, dal Pci. «Siamo – precisa – ai primi passi della segreteria di Craxi, della nuova direzione di Mondo Operaio, del rilancio dei circoli culturali che di lì a poco porterà alla formazione dei Club dei club, unione dei circoli culturali di area socialista, siamo nel pieno di una rinascita, Martelli rilancia a Roma il tema dei socialismi, e quindi si mettono a confronto le tradizioni del mondo socialismo, nel ’78 era comparso l’articolo di Craxi su Proudhon, stavamo vivendo una fase entusiasmante che poi, paradossalmente, si è spenta nel ’91, direi, con il referendum sulla preferenza unica, dove il Psi dopo essere stato la lepre della politica italiana, improvvisamente, per un’incomprensione di Craxi si è trovato imbottigliato».
Il referendum sulla preferenza unica, votato nel giugno del 1991, innescò la fine della Prima Repubblica e dello stesso Craxi. Il quesito referendario fu interpretato dai cittadini non tanto in relazione alla questione delle preferenze quanto come la possibilità di esprimersi in modo esplicito sulla classe dirigente, e venne usato per mandare un segnale all’establishment. Craxi non lo capì e, persuaso che quello in vigore costituisse il metodo più pluralistico nell’ambito del sistema proporzionale, difese la legge esistente e consigliò agli italiani di “andare al mare” invece che alle urne elettorali. E fu sommerso e sconfessato da una valanga sì. Dopo avere inflitto ai comunisti sconfitte clamorose come quella sugli euromissili e sulla scala mobile, accreditandosi come interprete di una sinistra europea e moderna, iniziò quel declino che sarebbe stato poi accelerato dalle inchieste di Mani Pulite.
Ma allora, tra fine anni Settanta e inizio degli Ottanta, spirava un vento ben diverso.
Nell’agosto del 1978 il segretario del Psi aveva pubblicato sull’Espresso un documento-manifesto in cui definiva la nuova identità del partito eliminando il marxismo-leninismo dal pantheon socialista ed esaltando il socialismo libertario di Pierre-Joseph Proudhon. «Nella società pluralistica – si leggeva nel documento – la legge della concorrenza non opera solo nella sfera dell’economia, ma anche in quella politica e in quella delle idee. Il che presuppone che lo Stato è laico solo nella misura in cui non pretende di esercitare, oltre al monopolio della forza, anche il monopolio della gestione dell’economia e della produzione scientifica. In breve: l’essenza del pluralismo è l’assenza del monopolio. Tutto il contrario delle tendenze che si sono affermate nel sistema comunista». Pertanto «se vogliamo procedere verso il pluralismo socialista, dobbiamo muoverci in direzione opposta a quella indicata dal leninismo: dobbiamo diffondere il più possibile il potere economico, politico e culturale. Il socialismo non coincide con lo statalismo. Il socialismo, come ha ricordato Norberto Bobbio è la democrazia pienamente sviluppata, dunque è il superamento storico del pluralismo liberale e non già il suo annientamento. È la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza».
Il manifesto di Craxi, come era nelle intenzioni del leader socialista, aveva provocato una bufera nella politica italiana e in particolare nella sinistra che, pur essendo almeno in parte consapevole dl fallimento del cosiddetto “socialismo reale” non aveva il coraggio di ammetterlo.
«Non si esita a dare versioni incredibilmente semplificate e unilaterali dell’esperienza storica del movimento operaio – aveva replicato Giorgio Napolitano sull’Unità – a presentare un’immagine quanto mai riduttiva e sommaria di una personalità come quella di Lenin (e ancor di più di quella di Gramsci), e a tacere dell’elaborazione originale dei comunisti italiani».
Intanto Bettanini era diventato segretario del Circolo Turati, vivace promotore di iniziative insolite per il clima culturale genovese. Il Turati era stato fondato da Antonio Canepa, nel 1970 eletto segretario regionale del Psi della Liguria e nel 1972 era entrato alla Camera, diventando il più giovane deputato al Parlamento e il più giovane membro della Direzione nazionale socialista. In una sua interpellanza al governo Canepa chiedeva di «informare, tramite il Parlamento, l’opinione pubblica sulle effettive decisioni del governo italiano in merito alla tragedia di oltre 300 mila esseri umani, profughi del Vietnam, alla ricerca disperata di un luogo che li accolga».
A Genova, grazie all’iniziativa del Turati, delle Acli locali e dell’Aics regionale, si era formato un comitato “Una nave per il Vietnam”, per aiutare i profughi e «trovare le migliori condizioni perché l’Italia sia per loro un rifugio sicuro, un paese fraterno e ospitale». In Francia André e Glucksmann, insieme con Jean Paul Sartre e il liberale Raymond Aron aveva fatto fronte comune per il sostegno ai “boat people”, in fuga dal Vietnam comunista.
«Era stato Jean Paul Sartre con un gruppo dei suoi allievi, i nouveaux philosophes – spiega Bettanini – a iniziare a denunciare il paradosso che un esercito di liberazione stava trasformando il Paese in una tirannia comunista. Liberati dall’imperialismo prima francese e poi americano i vietnamiti erano venuti a trovarsi sotto la tirannia comunista. Il comitato si chiamava Un bateau pour Le Vietnam, perché dal Vietnam scappavano i profughi, naturalmente ci saranno stati anche quelli compromessi con il vecchio regime ma la politica dei vietcong era una politica comunista».
«Nel ’78 – prosegue – abbiamo invitato a Genova Vo Van Ai per parlare della nostra iniziativa, di quello che stava accadendo in Vietnam. Abbiamo fatto anche con lui e con altri un percorso importante».
Vo Van Ai, che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa dei diritti umani del suo popolo, i vietnamiti, tracciò la prima mappa dei campi di rieducazione nel Nord e nel Sud del Paese: vi erano detenuti ben 800 mila prigionieri politici di cui fino a quel momento si era persa ogni traccia. Nel 1978 contribuì al varo della prima nave “Ile de Lumiere”, che soccorse i profughi vietnamiti nel Mar Cinese meridionale.
Anche con Ilios Yannakakis, un greco comunista che aveva lasciato il suo Paese per la Cecoslovacchia e, dopo la sconfitta della Primavera di Praga fuggì in Francia, il Turati aveva collaborato.
«Con Yannakakis, e Voi Van Ai – racconta l’ex segretario del Turati – abbiamo tentato di organizzare e proporre dei dibattiti in diverse città italiane, sempre boicottati dal Pci che addirittura quando siamo andati a Parma aveva organizzato contestualmente una manifestazione di massa per la libertà dei popoli dell’Indocina. Una cosa che, vista con gli occhi di oggi fa veramente inorridire. Eravamo stati accusati di dividere la sinistra con questa iniziativa. Buona parte della sinistra italiana era subalterna a questa logica».
«Io – prosegue – ero diventato segretario del Turati senza essere iscritto al Psi, mi sono iscritto mesi dopo. Mi aveva colpito anche emotivamente la posizione presa da Craxi sulla vicenda Moro. Da quella esperienza mi ero presentato alle comunali nell’81 e avevo preso tanti voti. Da lì è iniziata la mia carriera politica, che ha avuto delle anomalie. Intanto, io provenivo da un’esperienza completamente esterna al partito, anche se non estranea, perché certamente proponevamo temi propri del nuovo corso socialista, però io lavoravo a tutto campo, proponevamo temi a tutto a campo. Nel ’77 c’era stata con Ripa Di Meana la Biennale del Dissenso che era stata un evento clamoroso. Ancora grida vendetta il tentativo di censura costruito da democristiani e comunisti intorno a un evento che squarciava il velo sul dissenso nei Paesi comunisti e apriva un canale con il mondo che solo in Francia si era un po’ aperto».
La “Biennale del dissenso” si svolse in varie sedi veneziane dal 15 novembre al 15 dicembre 1977. Nell’articolo “Biennale del Dissenso: uno scontro a Sinistra” di Fabio Isopo, pubblicato qui (unclosed.eu arte e oltre / art and beyond, rivista trimestrale di arte contemporanea), Ripa di Meana racconta: “Incassato il “sì” convinto dei socialisti decisi di portare la proposta del dissenso culturale e ci fu quasi unanimità nel consiglio direttivo e io uscii con l’annuncio che avremo dedicato la Biennale a questo importante fenomeno. Questo suscitò un’immediata resistenza sovietica che si espresse nelle modalità diplomatiche. L’ambasciatore Rijov si recò dal ministro degli affari esteri Forlani, per affermare che quello della Biennale era un atto ostile verso l’Unione Sovietica e partì una marcia indietro dei comunisti che mi avevano sostenuto. La protesta fu guidata da un finissimo letterato, alto funzionario della Rai e dirigente del partito Adriano Seroni e poi seguita dai 7 membri comunisti del direttivo tra cui Ennio Calabria, Citto Maselli, Mario Baratto italianista di Cà Foscari, che cominciarono a distanziarsi e a dare una consegna di non gradimento a tutto il loro universo che era imponente per numero di giornali, quotidiani, cattedre universitarie e radicamento nel mondo culturale. Una situazione che convinse rapidamente Andreotti, che non cercava l’incidente con l’Unione Sovietica, a continuare l’Ostpolitik. C’era una lobby filosovietica enorme fra gli industriali, da Agnelli che aveva industrie a Togliattigrad fino a Marinotti con la Snia viscosa. Tante presenze filosovietiche fortissime le troviamo anche nella stessa Venezia, per esempio Bruno Visentin leader repubblicano e primo uomo della Olivetti (la posta in gioco era la fornitura informatica per l’Olimpiade prevista nel 1980 a Mosca). Mi toccò forzare la mano davanti all’ennesimo attacco pubblico dell’ambasciatore sovietico, che andò non soltanto da Forlani ma anche da un mio cugino (ambasciatore del tempo), minacciando di bloccare delle commesse di gigantesche petroliere affidate ai cantieri di Marghera”.
“Il sostegno del Psi e di Bettino Craxi, unico uomo politico italiano a partecipare alla giornata inaugurale (certo felice di poter mettere in imbarazzo il maggior partito della sinistra italiana), consentì al direttore della Biennale di portare a compimento l’operazione e superare gli ostacoli eretti dal mondo culturale e dalle grandi imprese italiane del tempo impegnate in Urss. Una folla enorme sfidò il gelido autunno veneziano del 1977. Per un mese, dal 15 novembre al 15 dicembre 1977 verrà presentato un intero universo culturale nei suoi molteplici aspetti”.
«L’elefante e la balena – commenta Bettanini – ci soffrivano parecchio perché avevamo un dinamismo politico e anche, devo dire, un’intelligenza politica che loro non avevano. Anche perché era un momento e un contesto in cui pesavano ancora moltissimo le ideologie e le ideologie costituivano anche tante gabbie».
Un’altra sfida e una “provocazione” dei socialisti libertari di Craxi nei confronti del Pci fu l’appoggio dato a Jiri Pelikan, che fu anche candidato dal Psi al Parlamento europeo. Pelikan, rimasto comunista convinto tutta la vita, aveva partecipato alla Primavera di Praga, terminata nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968, quando i carri armati del Patto di Varsavia avevano invaso la Cecoslovacchia. Si trasferì in Italia. Il Pci durante la “Primavera” fu con Dubcek, appoggiò i riformisti, pubblicò su “L’Unità” un documento di dissenso dall’invasione ma evitò di trasformare il dissenso in polemica e non rispose alle richieste di appoggio di Pelikan che poi accettò la candidatura al Parlamento Europeo offertagli da Craxi nel 1979.
Fra le tante ibattaglie combattute da Pelikan a favore del dissenso si ricordano la polemica, sulle pagine di “Mondoperaio”, contro Gunter Grass e Heinrich Boll, intellettuali e scrittori tedeschi che avevano criticato l’iniziativa di Aleksander Solzenicyn e Andrei Sinjavskij di avviare la pubblicazione della rivista “Kontinent” presso una casa editrice tedesca.
«Dai circoli e dall’amicizia con Claudio Martelli che era un po’ l’ispiratore di queste iniziative – ricorda Bettanini – traevo impulso per per la mia attività politica. Ma restavo una persona estranea al mondo delle correnti e non lo dico per criminalizzarle ma perché è un fatto obiettivo. Ero abbastanza amato a Roma e questo non mi ha reso facile la vita, obiettivamente, anche se mi ha portato poi alla segreteria della federazione. Alla segreteria però sono arrivato senza avere un gruppo di riferimento e quindi debolissimo, alla ricerca del consenso su ogni questione e su ogni votazione. È stata un’esperienza molto faticosa».
E ora? «Non ho abbandonato niente degli ideali di allora ma non è che devo fare molti sforzi in questa nuova casa per portarli avanti».